Contan-Ticino

24 08 2011

Cinzia Sasso per “La Repubblica

Sede della Banca Centrale Svizzera

La ragazza bionda con il tailleur firmato Prada, risponde con una gentilezza esagerata: certo che si può aprire una cassetta di sicurezza, costa dai sessanta ai trecento franchi, a seconda della dimensione; poi ci sono dieci franchi di tassa cantonale e comunque il pagamento è di un anno anticipato. Può tenere lei la chiave, ed è più caro; oppure la conserviamo noi».

La Banca Raiffeisen di Lugano è pronta all´emergenza: ecco un pieghevole che spiega tutto, nonostante la richiesta, le tariffe sono ferme al gennaio del 2011; ed ecco anche il biglietto da visita del consulente finanziario, «perché la cosa migliore è aprire anche un conto corrente. Non esiti a chiamarlo, la riceverà subito». Sulle sedie in pelle nera di Le Corbusier, nella penombra della sala d´aspetto, siedono una signora e un uomo corpulento di mezza età. Italiani, si direbbe. Italiani che sono tornati ad essere innamorati della Svizzera.

C´erano una volta gli spalloni. E sembrava che quella fosse un´epoca finita, relegata nel passato, cancellata dai solerti finanzieri che tengono sotto stretta osservazione i valichi di frontiera. Ma la crisi finanziaria, l´incertezza dei mercati, la paura per quel che sarà, è come se avesse riaperto le frontiere immaginarie. E il Canton Ticino, meno di un´ora da Milano, sempre ospitale e riservato, è tornato ad essere l´ancora di salvezza per gli italiani che non si fidano più della loro Italia.

Raccontano, dal centro Studi Fiscali Internazionali di Lugano, che i capitali stanno tornando massicciamente in Svizzera: «C´è molta sfiducia nel sistema Italia, c´è paura di una nuova aliquota supplementare sui capitali rientrati con lo scudo di Tremonti, c´è il fantasma della patrimoniale. Molti italiani hanno aperto conti correnti, c´è perfino chi ha deciso di spostare oltreconfine la propria residenza, ma molti tengono addirittura i soldi in cassette di sicurezza». Un dato dà corpo alle inquietudini: i conti correnti degli italiani, calcola la Banca d´Italia, è come se si fossero prosciugati, facendo registrare a giugno un meno 23,4 miliardi di euro di depositi.

Non è solo per i benestanti che cercano tranquillità per i loro beni, ma certo il menù italiano dell´Osteria Centrale – lunedì polpette, martedì amatriciana, mercoledì pizza – è un segnale. Tutti i tavoli occupati: tante coppie, pochi giovani. Risulta agli ambienti finanziari milanesi che molti correntisti si sono presentati il venerdì alla propria banca e hanno trasferito tutti i loro averi in assegni circolari per riportarli il lunedì, a week-end finito, dopo aver tirato un sospiro di sollievo per il pericolo mancato, quello che pure ancora aleggia, di una tassa di solidarietà.

Risulta anche che ci sia stata una massiccia ondata di acquisiti di lingotti d´oro. La vacanza in Sardegna di un private banker non è mai stata tanto disturbata: «I clienti sono terrorizzati, mi chiamano per avere dei consigli, la sfiducia nel mondo e nei nostri governanti è totale, vedo riprendere un fenomeno di fuga dei capitali che non si vedeva più almeno da vent´anni».

banca arner

Paolo Bernasconi, avvocato e gran conoscitore dell´Italia, ricorda i tempi andati, «quando si aprivano anche duecento conti di italiani al giorno». Oggi, dice, non è più così: l´accordo con la Germania per la tassazione dei capitali detenuti all´estero è un deterrente forte. Tremonti dice di non volerlo fare, ma durerà Tremonti? Così gli italiani non sanno cosa fare e pensano alla soluzione “fai da te”: invece che sotto il materasso, mettono i soldi nelle cassette di sicurezza delle banche.

Cash, a disposizione, in attesa che passi la nottata. Alla Banca del Sempione chiedono però un deposito di almeno 30-40mila euro; al Credit Suisse vogliono conoscere anche stipendio e professione; all´Ubs smentiscono la corsa alla cassette, “i giornali ne scrivono di tutti i colori”. Aggiunge Bernasconi: «La cassetta di sicurezza è la punta di un iceberg, è il simbolo della ricerca disperata di un rifugio».

Non sono solo gli italiani, martellati ogni giorno dall´effetto annuncio, a essere preoccupati. In Svizzera, la situazione generale finanziaria dell´Italia è tenuta sotto stretta osservazione, se è vero che nelle ultime due settimane l´autorità di vigilanza, la Finma, ha inviato due lettere alle filiali di istituti finanziari proprietà di banche o assicurazioni italiane. Teneteci informati – hanno scritto – su ogni pagamento che fate alla casa madre, sia sotto forma di dividendi che di rimborsi. Che è insomma come metterle sotto tutela.

Anche se non è solo l´Italia a navigare in acque tempestose. Perfino nell´ordinata Svizzera, un cartello avverte alla frontiera: attenzione, il prezzo della vignetta, la tassa per circolare sulle autostrade elvetiche, è fluttuante. Oggi costa 40 franchi. Domani, però, chissà.





Zara mi ha sempre fatto schifo. Ora piu’ che mai.

20 08 2011

P. DM. per “La Stampa”

ZARA

La griffe spagnola Zara è accusata di usare mano d’opera in Brasile in condizioni di lavoro vicine alla schiavitù. Lo hanno scritto ieri i maggiori quotidiani brasiliani, dopo che il ministero del lavoro di Brasilia ha avviato un’inchiesta in seguito a una denuncia sulle condizioni disumane di lavoro in un laboratorio clandestino di San Paolo. Secondo la denuncia, 16 persone, per lo più boliviani e peruviani, fra i quali 14enne, lavorano 12 ore al giorno, senza pausa domenicale, né ferie.

«Abbiamo trovato bambini esposti a rischio, macchine senza protezione, fili elettrici a vista, locali insalubri con molta polvere e senza circolazione d’aria, senza luce solare – ha detto al «Globo» il funzionario del ministero del lavoro, Luis Alexandre de Faria, che ha partecipato a due blitz in fabbrica -. I lavoratori dovevano chiedere autorizzazione al proprietario del laboratorio per uscire e dovevano comunicare dove andavano». La retribuzione, inoltre, è pari a 100 euro al mese, anche se il salario minimo previsto dalla legge brasiliana è di 247. Altre ditte che lavorano per Zara sono state scoperte in situazioni irregolari alla periferia da San Paolo e ad Americana, 100 chilometri dalla capitale paulista.

ZARA

I laboratori sono stati denunciati per 48 infrazioni, come eccesso di ore al giorno, mancata iscrizione nel libretto di lavoro, mancata concessione di riposo settimanale e ferie, mancanza di estintori di incendio, di illuminazione adeguata, di acqua potabile, e di sedie idonee. In un comunicato rilasciato in Brasile, la Inditex, proprietaria di Zara, ha informato che c’è stata una terziarizzazione non autorizzata di un fornitore (la ditta Aha) che avrebbe commesso un’infrazione al suo codice di condotta che stabilisce norme per i latori di commessa diretti e indiretti. La Foha de S. Paulo aggiunge che solo in Brasile il gruppo spagnolo ha 50 fornitori fissi che impiegano circa 7 mila lavoratori.





Lo schifo persiste #38

20 08 2011

2.414.310.901 euro. È quanto serve alla Camera e al Senato per le spese annue di funzionamento. Le cifre sono contenute nei bilanci interni consultivi del 2010, approvati in modo bipartisan dal Parlamento.





Tenete d’occhio Vietnam e Indonesia

20 08 2011

Marco Alfieri per “La Stampa”

prezzi cinesi

Qualche mese fa il colosso dei giocattoli Wham-O, che produce frisbee e Hula Hoop per i ragazzini di mezzo mondo, ha riportato metà delle sue fabbriche dalla Cina in California e Michigan. Caterpillar, racconta il Sole 24Ore , per produrre la sua nuova escavatrice non ha scelto i costi bassi dell’Asia ma una cittadina della Carolina del Nord, che ha messo sul tavolo un pacchetto di incentivi da 14 milioni di dollari. La stessa Flextronics, che fornisce Cisco e Hewlett-Packard, sta pensando di ridurre la base cinese per puntare su un paese come il Messico. Poi c’è Ikea, che presidia coi megastore il mercato asiatico ma ha ormai ridotto sotto il 20% del totale acquisti le sue forniture cinesi.

CINA

Da qualche tempo la Cina sembra un po’ meno la fabbrica del mondo conosciuta e temuta negli ultimi 15 anni. Chi dava per morta la produzione nel vecchio Occidente affossato dalla crisi del debito, almeno su questo potrebbe ricredersi. E’ una specie di delocalizzazione di ritorno. «In Cina sta aumentando tutto», spiega Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia. L’inflazione è schizzata al 6,5%. I prezzi alla produzione sono cresciuti del 7% in pochi mesi, gli alimentari del 15, la terra del 20. Anche lo yuan è apprezzatissimo tanto che il vice di Obama, Joe Biden, in visita in Cina, ha chiesto alle autorità di Pechino di rivalutarlo.

Ma è soprattutto l’habitat produttivo a rincarare. «I 34 governi provinciali, indebitati fino al collo dopo il grande ciclo delle opere pubbliche, devono fronteggiare la stretta bancaria e immobiliare», dunque raschiano soldi dove possono torchiando le imprese: «sicurezza sul lavoro, norme antincendio, ambientali, tutte cose su cui prima sorvolavano», prosegue Forchielli. Nel frattempo «il costo del lavoro lievita del 20% l’anno, ben oltre una produttività frenata dai pochi investimenti in tecnologia e formazione. Ogni giorno ci sono operai e fornitori che chiedono l’aumento», raccontano i manager del fondo Mandarin.

Caterpillar

Secondo le stime di Boston Consulting Group, un salario medio cinese nel delta dello Yangtze fermo a 0,72 dollari l’ora nel 2000, salirà a 8,16 nel 2015. Vuol dire che il risparmio sui costi occidentali ormai non vale più del 15 per cento. Così sempre più aziende europee o americane si fanno un giro ma decidono di non aprire. E’ successo ad una grossa azienda chimica tedesca che ha appena disdetto un pre-contratto per andarsi a basare in Arkansas. Chi concepisce la Cina come pura base di esportazione, ormai ci pensa bene prima di venire.

Naturalmente Pechino resta la locomotiva del mondo. La produzione industriale tiene (+17% sul 2010), i consumi girano (+16%) e il Pil crescerà anche quest’anno all’8%, nonostante i tentativi di raffreddarlo per evitare di importare inflazione dagli Usa. Ma la transizione verso un modello meno centrato sul tridente «investimenti-produzione-export» e più attento alla domanda interna e ai servizi, sarà lungo e doloroso anche per gli scaltri timonieri del partito comunista.

A Dongguan, metropoli da 10 milioni di abitanti incastrata tra Shenzhen e Guangzhou, in pratica la principale base export del tessile e dei giocattoli made in China, se ne vedono i segni. Molte imprese stanno chiudendo per il calo della domanda estera e i costi fuori mercato: nel primo semestre dell’anno se ne contano già 265. Compresi due colossi da migliaia di posti di lavoro come il South Korean Suyi Toy Factory e la Chinese Dingjia Textile Factory.

ikea

La catena è infernale e apre veri e propri crateri sociali: i clienti europei e americani riducono gli ordinativi, le scorte si fermano in magazzino, il costo del lavoro e delle materie prime schizza e le banche non concedono i mutui necessari a pagare i fornitori. Tanto più su produzioni dove i margini non vanno oltre il 5% sempre più appannaggio di paesi low cost come Vietnam, Cambogia e Indonesia, scelte dalle grandi catene occidentali attentissime a limare i costi davanti a scenari di consumi deboli.

Paradossale, no? I paesi cintura stanno facendo quel che i cinesi fecero ai nostri distretti a metà anni 90: la concorrenza sul prezzo! Nel settore del pellame, ci sono aziende di Pechino che per difendersi stanno a loro volta delocalizzando in Africa…

Su prodotti più alti pesa invece la maturazione del consumatore occidentale. «La Cina può soddisfare alcune esigenze di base, ma ha sempre più difficoltà con i prodotti top», raccontano dalla Confindustria europea a Bruxelles. «Molti grandi buyer americani o tedeschi lamentano la scarsa fattura delle partite cinesi, e questo ci rimette in pista», rilancia un imprenditore tessile comasco. «Alcuni colleghi francesi che avevano venduto stanno riattando vecchie tessiture per tornare a produrre in casa».

Buon segno. «I cinesi non sono in grado di consegnare 30mila mq di piastrelle di buona qualità in due settimane dall’altra parte del globo, noi sì», s’inorgogliscono da Sassuolo. Il resto lo fanno i costi logistici e la scarsa tutela dei contratti. E’ la globalizzazione che si rimette in moto. Un’altra volta.





Lo schifo persiste #37

18 08 2011

Mario Staderini per il “Fatto Quotidiano”

Qualcuno lo pensa, altri lo temono, nessuno lo dice. C’è un fronte di tagli alla spesa pubblica che si impone oggi più che mai: i privilegi del Vaticano. Eliminando l’8 per mille e alcune immotivate esenzioni fiscali, ad esempio, il bilancio dello Stato potrebbe contare su 3 miliardi di euro in più all’anno.

VATICANO

Facciamo un po’ di conti e iniziamo dall’otto per mille. Ogni anno la Cei incassa 1 miliardo di euro delle tasse degli italiani attraverso un sistema truffaldino ideato proprio da Tre-monti quando faceva il consulente per il ministro Formica. Che ci fa la Cei con questo fiume di denaro, pari a cinque volte quello che i partiti prendono tutti insieme di finanziamento pubblico? Lo spende per pagare lo stipendio ai preti (il 33% del totale), per costruire nuove chiese (!), per sostenere le diocesi, per evangelizzare i popoli dei paesi in via di sviluppo e indottrinare le loro classi dirigenti, per finanziare le varie iniziative politico-culturali della Conferenza episcopale e la galassia di associazioni antiabortiste protagoniste della guerra al referendum sulla legge 40 e ai diritti conquistati da Welby e Englaro.

L’otto per mille andrebbe abolito del tutto perché le chiese si devono finanziare da sole (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, Marco 12,13-17), come avviene nelle democrazie liberali. A ogni modo basterebbe dimezzarlo, risparmiando ogni anno 500 milioni di euro che non andrebbero certo a ridurre la carità ai poveri.

É la stessa legge istituiva a imporlo in caso di aumento del gettito e Tremonti lo sa benissimo. Infatti l’otto per mille della Cei è passato dai 200 milioni di euro del 1990 al miliardo di oggi, in pratica si è moltiplicato per cinque nonostante lo stipendio di un prete (originario motivo del finanziamento pubblico) sia poco più che raddoppiato.

Passiamo ora ai privilegi fiscali degli enti ecclesiastici. Considerando solo l’esenzione dal pagamento dell’Ici delle loro attività commerciali e la riduzione del 50% dell’Ires sui redditi che gli enti producono, si arriva ad almeno 2 miliardi di euro di minor introito per lo Stato ogni anno.

Vaticano

Non stiamo parlando di tagliare i fondi per le parrocchie, la Caritas o gli oratori, ma di eliminare quelli che la stessa Unione europea potrebbe considerare illeciti aiuti di Stato. Quando il Vaticano e le sue diverse ramificazioni macinano profitti con il loro immenso patrimonio immobiliare, con il turismo, con le cliniche e gli ospedali, con le scuole e le università, non v’è ragione che non paghino le tasse come tutti noi comuni mortali.

Dunque: almeno 500 milioni di euro risparmiati dall’otto per mille, due miliardi togliendo esenzioni su Ici e Ires, totale 2,5 miliardi euro. All’anno. Eppure, in una manovra in cui si taglia di tutto e si riduce la spesa per il sociale, intervenire sulla “tassa Vaticano” rimane un tabù.

Persino sulle festività, le uniche intoccabili sono quelle religiose mentre anche il 1° maggio può saltare. Si dirà: è il Concordato, bellezza. Appunto. Iniziamo intanto con il porre mano alle regalie economiche, alle attività commerciali. Per il resto, i miracoli laici, ci stiamo attrezzando.





Lo schifo persiste #36

13 08 2011

MILANO – Dopo averdivulgato il menu di palazzo Madama ora il web butta in pasto al pubblico anche la carta del ristorante di Montecitorio. E se Sparta piange, Atene non ride. Anche alla Camera si mangia a «prezzi stracciati». E ovviamente gli euro sborsati dagli onorevoli non bastano a pagare le spese.

ALLA CAMERA – Qualcuno – dopo quello del Senato – ha trafugato materialmente anche un menu del ristorante dei deputati e lo ha pubblicato tale e quale. A Montecitorio i prezzi sono più alti ma niente a che vedere con quelli che tutti i giorni si vedono al supermercato. Qualche esempio: un piatto di pasta varia dai 2 euro, quella con patate e zucchine, ai 5 e 30 del risotto con gamberi e pachino. Quanto costerebbe questo piatto al ristorante? Non meno di 12-15 euro. Esattamente un terzo. E via di questo passo con i secondi che variano dai 4 euro di una leggera insalata di pollo ai 5 e 30 del carrè di agnello al forno. Insomma prezzi fuori mercato.

QUANTO CI COSTA – Al Senato per ogni coperto del ristorante si deve raddoppiare la cifra corrisposta dai commensali. L’operazione costa ai contribuenti circa 1.200.000 euro l’anno. Una realtà svelata dal deputato dell’Idv Carlo Monai al settimanale l’Espresso. Il web ne riprende la foto del menu: apriti cielo. Risultato su Corriere.it: in trecentomila hanno preso visione dei privilegi a tavola dei senatori italiani e una parte ha inondato il nostro sito, e blog vari, di commenti ironici e furiosi. Un coro: «Allora tutti a mangiare al Senato!». Un successo mediatico. Tant’è che a fine serata il presidente del Senato Renato Schifani ha fatto sapere che i prezzi della ristorazione interna verranno presto adeguati ai costi effettivi. Intanto però sarebbe utile sapere da quando saranno «attualizzati» i prezzi. Anzi, ancora più importante sarebbe annunciare i sacrifici che si chiedono agli italiani contemporaneamente a quelli che farà la «casta». Vedremo .

Il deputato Carlo Monai (Idv)
Il deputato Carlo Monai (Idv)

LE PROPOSTE – Ma non è solo il web a indignarsi. «Rinnovo la mia proposta al collegio dei questori del Senato di rinunziare agli alloggi di servizio e di trasformare tutti gli attuali centri di spesa del Senato (ristorante, buvette, barberia (gratis, ndr), spaccio, banca, infermeria) relativi ai servizi resi ai senatori e agli ex-senatori a prezzi politici in centri di utili, affidando con regolare gara a società esterne qualificate i servizi stessi da pagare, da parte dei parlamentari ai prezzi correnti di mercato» Queste non sono le parole anonime di un commentatore su Internet bensì pensieri «pesati» di un membro della commissione Affari Costituzionali: il senatore pidiellino Raffaele Lauro. E allora da dove iniziare? «La Camera dei deputati, grazie alla chiusura della mensa di San Macuto, risparmierà un milione di euro – afferma il questore della Camera Antonio Mazzocchi – Inoltre, resta valida e confermo la mia proposta di sostituire tutte le mense della Camera con un unico self service con i relativi costi dei pasti a totale carico di chi ne usufruisce. Il risparmio accertato sarebbe almeno di 4-5 milioni l’anno». Ma anche il web suggerisce: «Auto blu, voli blu, tassi del mutuo scontati, occhiali gratis, psicoterapia pagata, massaggi shiatsu, balneoterapia, cure termali…». Intanto il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, lancia una proposta via twitter: @DeBortoliF«Chiudere i ristoranti di Camera e Senato e dare ticket agli onorevoli»





E io pago…

28 07 2011

mike_miller_alberghi_nuova_zelanda.jpgPrezzi esorbitanti, fuori mercato, fino a dieci volte più cari rispetto al normale. E’ questo lo scenario che si sta presentando ai tifosi di rugby che cercano alloggio in Nuova Zelandaper i prossimi Mondiali di rugby. Un’accusa che viene lanciata direttamente da Mike Miller, CEO dell’International Rugby Board.

”Qualcuno ha pensato ‘possiamo guadagnare un extra notevole e chi se ne importa del futuro’ – le parole di Miller Radio New Zealand –. Non è una grande immagine per il Paese”.





Carramba che sorpresa !

23 07 2011

Livia Manera per il “Corriere della Sera”

Questa è una storia sorprendente, una storia conosciuta a pochi e una storia molto americana, accaduta quando a New York – poco dopo la metà degli anni 80 – Andy Warhol teneva spettralmente corte nei ristoranti alla moda di Downtown, i mercanti d’arte si litigavano i quadri di Jean-Michel Basquiat, e i lettori e i critici, per una volta d’accordo, incoronavano star letteraria dell’anno una ragazza di ventinove anni che si chiamava Mona Simpson e aveva appena pubblicato un bel romanzo d’esordio intitolato «Anywhere but here» («Dovunque ma non qui» , nell’edizione Mondadori).

Mona SimpsonMONA SIMPSON

 

Ricordo ancora come cominciava: due parole seguite da un punto che ai miei occhi portavano la firma di Gordon Lish, l’editor che sarebbe stato riconosciuto- non senza polemiche e strascichi- come l’inventore del minimalismo americano. Erano gli anni in cui Lish, lavorando alla Knopf, infieriva genialmente sulla prosa di Raymond Carver – ma anche di altri – mozzando interi paragrafi e facendo strage di aggettivi e avverbi che non corrispondevano alla sua estetica inflessibile.

Non so se fosse sua o di Mona Simpson la scelta dell’incipit di «Anywhere but here» : «We fought» . Ma so che suonava più aggressivo del nostro «Litigavamo» , e che aveva il sapore e l’intenzione di una di una sfida. Quella di raccontare il turbolento rapporto tra una ragazzina dodicenne e la sua giovane madre, che a bordo di una Lincoln Continental fuggono da un’esistenza mediocre attraverso un’America assolata e poco ospitale. Il padre della ragazzina le aveva abbandonate. Era un romanzo che colpiva, letterario e muscoloso, ma in Italia sarebbe passato inosservato.

MONA SIMPSONMONA SIMPSON

Accade dunque che a New York, nel dicembre del 1986, Mona Simpson dà una cena nel suo appartamento dell’Upper West Side per una dozzina di persone, tra cui i miei migliori amici- lui scrittore, lei storica dell’arte – che mi estendono l’invito. C’è l’aria calorosa di una celebrazione in famiglia (la famiglia dei giovani newyorkesi sradicati, cioè il giro degli amici stretti), e a tavola mi accorgo di conoscere tutti i presenti, tranne un ragazzo a cui do non più di venticinque anni (ne aveva qualcuno di più), che siede davanti a me ed è troppo sicuro della propria intelligenza per essere simpatico.

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Dance Anni ’90 acappella megamix – Fantastico

19 07 2011

 





Franchino

19 07 2011

Malcom Pagani per l’Espresso

Le albe da trovare dentro l’imbrunire, la prima canzone in arabo, un titolo “I telegrafi del martedì grasso” rimasto nelle nebbie di un angiporto inglese. «Durante un tour a Manchester vidi una scritta sul muro. Invitava ad arruolarsi. Mi appropriai dell’idea e scrissi una canzone. Poi usai la frase per inclinare ereticamente il piano del mio disco». “Up patriot to arms”. L’esortazione pretendeva una scelta e Franco Battiato indossò la divisa di complemento. Era il 1980.

Franco BattiatoFRANCO BATTIATO

Da allora, non è cambiato molto. «Mi parve giusto usarlo e oggi lo riutilizzo in una nuova tournée che parte da Roma perché questo Paese, come allora, ha bisogno di svegliarsi». All’epoca, il viso lungo del siciliano che scelse di naufragare a Milano ai tempi in cui la vita era agra e Luciano Bianciardi faceva notte al Bar Jamaica, cambiò le regole d’ingaggio della musica italiana. Due milioni di copie in tre anni. Estati solitarie, bandiere bianche, cinema all’aperto, voci del padrone, zingari, alberghi a Tunisi e sirene di Ulisse che non hanno mai conosciuto il difetto del calcolo.

BattiatoBATTIATO

Da allora Battiato, che crede nella reincarnazione, ha interpretato molte vite. Pittore, scrittore, regista, mentore, operista. Eremitaggi, sveglie alle cinque di mattina e ascese velocissime che a 66 anni lo hanno legato al palco. Ama schermirsi, definire «grossolano» ogni tentativo di interpretazione del reale, cambiare d’abito. Anche se il contesto, come la madre di una sua canzone è definitivamente imbiancato, la rabbia è rimasta giovane.
Voleva pensionare gli addetti alla cultura.

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