Eataly #2

30 03 2012

I carabinieri del Nas di Parma hanno sequestrato in un prosciuttificio in provincia di Modena 91 mila prosciutti crudi, per un valore di 2,5 milioni di euro, di provenienza estera, ma privi della bollatura sanitaria prevista dalla normativa comunitaria che ne avrebbe consentito la rintracciabilità. Borse, occhiali, prodotti in pelle, persino materassi. Ma il falso “Made in Italy” non si ferma neppure davanti all’agroalimentre. Anzi. E’ sempre più attaccato dai “tarocchi”, tanto che il settore, perde ogni giorno nel mondo oltre 160 milioni di euro che in un anno diventano 60 miliardi di euro.

“Un business enorme che danneggia le nostre aziende che si trovano spiazzate sui mercati”, dice la Confederazione italiana agricoltori aggiungendo che “vanno nella giusta direzione tutte le iniziative che difendono le nostre imprese nel mondo”.

Fatta eccezione per i prosciutti a Dop che garantiscono l’origine italiana, Parma, San Daniele, Toscano, Modena, Carpegna e Berico Euganeo, sul mercato è facile acquistare prosciutti che pur essendo definiti “Made in Italy”, come prosciutto nostrano o di montagna, in realtà non hanno nulla a che fare con la realtà produttiva nazionale.

Con la crisi e la necessità di risparmiare anche sul cibo, le frodi a tavola sono diventate quelle più temute dagli italiani, sei cittadini su dieci le considerano più gravi di quelle fiscali e degli scandali finanziari

[Crediti | Link: Repubblica Bologna]





Agromafie e Made in Italy

9 07 2011

di Alessandro Iacuelli

La presentazione di un rapporto, il primo tra l’altro, sulle infiltrazioni mafiose nel settore alimentare dovrebbe essere una notizia importante, di quelle che trovano ampio spazio nei notiziari. Così non è stato, come per tante altre cose, ed è subito caduto nel silenzio il 1° Rapporto sulle Agromafie, presentato da Eurispes e Coldiretti.

Per la prima volta è stato analizzato il fenomeno della criminalità organizzata che agisce nel comparto agroalimentare, che crea un vero e proprio business parallelo e finisce per arrivare sulle tavole degli italiani aumentando i prezzi e riducendo la qualità dei prodotti acquistati dai consumatori, danneggiando allo stesso tempo anche le imprese impegnate a garantire gli elevati standard del Made in Italy alimentare.

I risultati presentati nel rapporto sono preoccupanti, al punto da meritare riflessioni e approfondimenti. Tanto per cominciare, ogni anno vengono sottratti al mercato regolare dell’agroalimentare 51 miliardi di euro. Cifra da capogiro, cifra da manovra finanziaria. Ed è un dato riferito al 2009, quando il settore dell’industria alimentare italiana ha registrato un fatturato complessivo di 120 miliardi di euro, secondo i dati presentati da Federalimentari, mentre il settore agroalimentare propriamente detto, escluso il settore della silvicoltura, ha registrato un fatturato di 34 miliardi di euro, dati secondo Ismea).

Quindi, il giro d’affari complessivo si aggira su circa 154 miliardi di euro, stiamo cioè parlando di 10% del Pil italiano 2009. Quasi un terzo di questa cifra, quindi una parte non trascurabile, è il bilancio delle mafie nel settore alimentare. Appare fin troppo evidente che si tratta di un dato preoccupante.

Il settore dove le mafie “sfondano” è quello delle false importazioni. Infatti, di tutte le materie prime importate, anche quando si tratta di alimenti una buona parte è classificata come “importazioni temporanee”, termine con cui s’intendono quelle importazioni di prodotti che vengono poi rivenduti sul mercato estero dopo una qualche trasformazione che avviene in Italia, ovvero importazioni di merci provenienti da uno Stato estero introdotte temporaneamente nel territorio nazionale a scopo di perfezionamento, e poi esportate di nuovo verso i Paesi di destinazione finale.

Queste merci, pur contenendo prodotti agricoli non italiani, data l’attuale normativa possono essere rivenduti all’estero con il marchio “Made in Italy”. Questo significa, dati alla mano, che su 27 miliardi di euro d’importazioni, una parte di queste materie prime importate sono state senz’altro riesportate come Made in Italy. Fa nulla se si trattasse di prodotti nord africani o sud americani. E secondo le stime presentate nel rapporto, almeno un prodotto su 3 del settore agroalimentare importato in Italia e trasformato nel nostro Paese, viene poi venduto sul nostro mercato interno e all’estero con il marchio Made in Italy.

Quindi non solo riesportazioni, ma anche introduzione nel mercato italiano di prodotti segnalati come italiani, ma che d’italiano hanno solo l’imballaggio o l’etichetta. Sulla bilancia dei pagamenti questo significa che almeno 9 miliardi di euro, nel solo 2009, sono stati spesi per importare dei prodotti alimentari esteri che sono poi rivenduti come prodotti nati in Italia.

Il dato che dovrebbe impressionare di più, come sottolinea il rapporto, emerge applicando questa proporzione al fatturato complessivo di 154 miliardi di euro: circa il 33% della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati, pari a 51 miliardi di euro di fatturato, derivano da materie prime importate, trasformate e vendute con il marchio Made in Italy, in quanto la legislazione lo consente, nonostante in realtà esse possano provenire da qualsiasi parte del pianeta. E le organizzazioni criminali sono riuscite per prime a mettere le mani su questo “affare”, consentito da falle legislative, portando questo settore di business al terzo posto, dopo l’edilizia abusiva e l’ecomafia dei rifiuti.

E’ il primo identikit che tracciamo in Italia su questo argomento. Inquietante, spinoso e pericoloso poiché ce lo ritroviamo inconsapevolmente a tavola. Le mafie hanno dimostrato la capacità di condizionare e controllare l’intera filiera agroalimentare, dalla produzione all’arrivo della merce nei porti, dai mercati all’ingrosso alla grande distribuzione, dal confezionamento alla commercializzazione.

L’intero comparto appare caratterizzato da fenomeni criminali legati al contrabbando, alla contraffazione e alla sofisticazione di prodotti alimentari ed agricoli e dei relativi marchi garantiti, ma anche dal fenomeno del “caporalato”, che comporta lo sfruttamento dei braccianti “in nero” con conseguente evasione fiscale e contributiva. Ancora presto per tracciare i potenziali danni al sistema sociale ed economico che, secondo gli autori dello studio, “sono molteplici, dal pericolo per la salute dei consumatori all’alterazione del regolare andamento del mercato”.

Le mafie rappresentano ormai una vera e propria holding finanziaria in grado di operare sull’intero territorio nazionale, un business da 220 miliardi di euro l’anno, l’11% del prodotto interno lordo. Pertanto era destino che anche il settore alimentare dovesse prima o poi risultare appetibile. In conclusione, sono le associazioni criminali a determinare l’aumento dei prezzi, a proporsi sempre di più come “soggetto autorevole d’intermediazione tra i luoghi della produzione e il consumo, assumendo l’identità di un centro autonomo di potere”.

In un periodo come questo poi, caratterizzato da crisi economica, calo dell’occupazione e dei prezzi alla produzione, diviene facile per le agromafie investire i loro ricchi proventi in larga parte in attività agricole, nel settore commerciale e nella grande distribuzione: “La loro crescita ed espansione appaiono supportate dall’inadeguatezza del sistema dei controlli e della comunicazione dei dati e dalle informazioni, sia con riferimento alla fase dell’importazione dei prodotti agroalimentari, sia con riferimento alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita”, afferma la Coldiretti nel dossier.

E’ proprio l’organizzazione di categoria dei coltivatori, quella che si lamenta di più: “La situazione non migliora nel comparto vegetale dopo che nel 2010 sono stati importati ben 115 milioni di chili di concentrato di pomodoro, il 15 per cento della produzione nazionale”. I risultati, non economici, ma in termini di alimentazione e salute, li ha presentati la stessa Coldiretti, attraverso il suo presidente Sergio Marini, in un piccolo “salone degli inganni”.

Ce n’è per tutti i (pessimi) gusti: mozzarelle senza latte, concentrato di pomodoro cinese avariato e “spacciato” come Made in Italy, prosciutto ottenuto da maiali olandesi e venduto come nazionale con tanto di fascia tricolore, ma anche grandi marchi di vini contraffatti, olio di semi imbottigliato come extravergine o Chianti prodotto in California. Ci sono anche, identificati attraverso i reperti sequestrati nell’ambito delle operazioni antifrode delle forze dell’ordine, vini con marchi inesistenti o il miele con l’aggiunta illegale di zucchero. Non mancano neppure falsi prosciutti di Parma Dop. Latte, biscotti e succhi cinesi contenenti melamina. Falsa mozzarella di bufala Dop, falso aceto balsamico di Modena Igp e falso vino Amarone Doc.

Ora che questi meccanismi iniziano ad essere chiari, ora che iniziano ad essere studiati, appaiono in tutta la loro pericolosità tutti gli aspetti più inquietanti; e c’è da dire che, purtroppo, sulla penetrazione mafiosa in questo settore siamo certamente ancora alll’inizio.





Truffe semafori, arrestato ideatore

3 02 2009

Indagati in 109 tra cui vigili urbani

Il progettista dei T-Red, Stefano Arrighetti, è stato arrestato dai carabinieri lombardi e da quelli di San Bonifacio (Verona) nell’ambito dell’inchiesta della procura di Verona sui cosiddetti ‘semafori intelligenti’ che vede indagate altre 108 persone. Tra questi figurano 63 comandanti di polizia municipale, 39 amministratori pubblici e sette amministratori di società private. Una di queste intascava fino al 35% per le infrazioni.

Arrighetti, 45 anni di Seregno (Milano), amministratore unico della Kria di Desio (Milano), è accusato di frode nelle pubbliche forniture. Secondo quanto si è appreso, Arrighetti avrebbe omologato solo la telecamera e non avrebbe chiesto e quindi mai ottenuto dal Ministero dei trasporti l’omologazione dell’hardware dell’apparecchiatura che fa funzionare l’intero sistema. Tra gli indagati ci sono anche i comandanti di polizia municipale di Perugia e di Mogliano Veneto (Treviso).

Intanto i carabinieri di San Bonifacio hanno provveduto al sequestro preventivo dei T-red in 64 comuni di 24 province, ma il numero è destinato a crescere nei prossimi giorni. Sono infatti 80 i comuni del centro-nord Italia al centro dell’indagine nei quali sono state comminate decine di migliaia di contravvenzioni. Il provvedimento restrittivo che ha raggiunto Arrighetti è stato emesso dal gip scaligero Sandro Sperandio su richiesta del pm Valerio Ardito.

Per fare cassa
Dalle infrazioni accertate, la società Citiesse percepiva il 30-35% per ogni multa rilevata (150 euro + Iva al 20%). Solo in un secondo tempo la polizia locale vedeva le immagini, violando così l’articolo 12 del Codice della strada. Nella maggior parte dei casi i verbali di contestazione sono stati redatti da società private (e non dai pubblici ufficiali) che svolgevano anche il servizio di notificazione (consegna alle Poste delle raccomandate), percependo un importo in media di 5 euro per ogni verbale sul quale, inoltre, veniva apposta dalla società privata una firma scannerizzata del pubblico ufficiale.

Così le operazioni di accertamento, di notifica e di verbalizzazione, attività tipiche per il pubblico ufficiale (e che non possono essere delegate ad altri) erano affidate, tramite percentuale, a società private compiendo una falsità materiale, secondo l’articolo 476 del Codice penale. Tutto ciò per fare cassa. Riguardo al “semaforo intelligente”, il Ministero dei Trasporti lo ha vietato dal 2005 con una nota trasmessa agli enti locali, sottolineando che si dovevano ritenere responsabili civilmente e penalmente nel caso in cui, con l’applicazione di tale sistema, si fossero causati sinistri stradali con feriti. Molti semafori erano stati regolati in modo tale da presentare una luce gialla di durata inferiore ai 4 secondi, così da impedire l’arresto dei veicoli in condizioni di sicurezza.





Il bue che dà del cornuto all’asino

21 12 2008
Ecco come vincono gli Onesti...

Ecco come vincono gli Onesti...





Lo schifo persiste #17

9 12 2008

QUEI 100 MQ A VIA MARGUTTA CHIESTI DA PARISI PER LA SUA SEGRETARIA
Case in affitto nel centro storico di Roma a prezzi di favore. L’Ipab Sant’Alessio è un ente controllato dalla Regione Lazio che si occupa dell’assistenza ai ciechi e possiede quasi 700 appartamenti, tanti in centro storico. Da dieci anni ne «approfittano» politici, imprenditori e amici degli amici.
Il 3 maggio 2007 negli uffici del Sant’Alessio arriva una domanda, di quelle che pesano, per un alloggio in affitto. La scrive Arturo Mario Luigi Parisi che, alla seconda pagina del modulo, dichiara di lavorare al ministero della Difesa con la qualifica di Ministro

L’impiegato dell’Ipab sarà saltato su una sedia: un ministro della Repubblica chiede di avere un appartamento in affitto all’istituto di assistenza dei ciechi? Proprio così.
Non solo. Il ministro Parisi esprime a piè di pagina la sua preferenza: «Alloggio di mq 100 e possibilmente in via Margutta a Roma».

Una richiesta specifica che segue la lettera del 25 aprile 2007 che il ministro Parisi fa scrivere (su carta intestata del ministero della Difesa) dal capo della sua segreteria, Sandra Cecchini, al presidente del Sant’Alessio Mario Dany De Luca. «Caro Presidente – si legge nella missiva – come da accordi presi con l’architetto Di Bernardino, le invio la domanda del ministro Parisi e del dottor Basilio che vorrebbero avere, qualora possibile, la disponibilità di un alloggio dall’Ente da Lei presieduto. Le sarei grata se potesse fissarmi un appuntamento». Firmato Sandra Cecchini.

Nel giro di poche settimane la richiesta viene accolta. Ma con una lieve modifica. Purtroppo una casa libera di cento metri quadrati in via Margutta non era al momento disponibile. Tuttavia si è trovata una soluzione: due appartamenti comunicanti. Uno di 51 metri quadrati a 1.315 euro al mese, l’altro di 41 metri quadrati a 1.518. E il gioco è fatto. Con una piccola controindicazione: il secondo alloggio, quello di 41 metri quadrati, ha una destinazione d’uso commerciale. Anche se utilizzato come abitazione. L’ente se ne accorgerà qualche tempo dopo.

Tuttavia l’inquilino della «doppia-casa» di via Margutta non è mai stato il ministro Parisi (ora deputato), che risiedeva in un alloggio militare. Ma il capo della sua segreteria particolare, Sandra Cecchini. La signora che il 25 aprile, invece di festeggiare la Liberazione, era in ufficio a scrivere sulla carta del ministero la richiesta al presidente dell’Ipab Sant’Alessio, Mario Dany De Luca.





Galbani…Galbani…

14 10 2008

dal nostro inviato PAOLO BERIZZI
NON BASTAVANO le indagini – che continuano ad ampio raggio – delle procure di Cremona e Piacenza. Adesso a scrivere una nuova pagina nello scandalo dei formaggi “scaduti, bonificati e reimmessi sulle tavole degli ignari consumatori” (dalle carte dell’inchiesta), ci pensano gli stessi dipendenti delle aziende. Accade a Perugia, dove alcuni lavoratori – venditori e addetti allo stoccaggio – hanno presentato un esposto in procura contro la Galbani, denunciando di essere “stati obbligati, per anni, dai capi del personale, a vendere merce con la data di scadenza contraffatta”.

A disposizione dei magistrati ci sono documenti, fotografie e registrazioni audio piuttosto esplicite. Nella denuncia si fa riferimento a grossi quantitativi di prodotti piazzati sul mercato dopo provvidenziali lifting nel deposito perugino dell’azienda. Da lì – stando al dossier ora al vaglio degli investigatori – dal 2000 in poi sarebbero partite tonnellate di formaggi e salumi “tenuti in vita”.

Il marchio Galbani è già coinvolto nell’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza di Cremona e Piacenza. Compare tra i principali fornitori della Tradel, una delle aziende “riciclone” che tra Lombardia e Emilia Romagna acquistavano formaggio scaduto o avariato e lo “bonificavano” mischiandolo a prodotto fresco. Precise responsabilità, in quel caso, sono emerse a carico di alcuni impiegati degli stabilimenti Galbani di Certosa di Giussago e Corteolona (Pavia).

Decine di tonnellate di merce qualificata come “residui di produzione lattiero casearia per trasformazione a uso alimentare” erano in realtà costituite da croste di gorgonzola ad uso zootecnico e cagliate scadute.
Egidio Galbani Spa produce i formaggi Bel Paese, Certosa, Santa Lucia e Galbanino. Fa parte della francese Lactalis, il gruppo caseario numero uno in Europa, già proprietario di altri marchi italiani tra cui Invernizzi e Locatelli. “Big logistica” è la società che distribuisce e vende tutti i prodotti Galbani in Italia.

Nel deposito di Perugia operano 26 camioncini, ognuno dei quali “piazza” in media 60 quintali di merce al mese, complessivamente 15 tonnellate. È qui, nella base umbra, che deflagra il caso “etichette”. Tutto inizia nel 2005. Con una denuncia “interna”. Alcuni dipendenti si rivolgono al direttore del personale (tuttora in carica). Non ne possono più di quello che – in una serie di comunicazioni riservate – viene definito un “sistema vergognoso”.

Informano il dirigente su ciò che sistematicamente avviene nel deposito. Una serie di “incastri” sulle confezioni di formaggi e salumi: scadenze prorogate, cancellate con solventi in modo tale che il prodotto possa essere venduto senza problemi. Fatture e bolle di accompagnamento modificate ad arte. Qualche esempio? La mortadella “Golosissima” scade il 16-01-2003 ma la fattura di vendita riporta la data 24-01-2003. Le mozzarelline Santa Lucia scadono il 5-5-2005 e però vengono vendute l’11-05-2005.

La stessa sorte tocca alle ricottine (confezioni da 250 gr), al provolone piccante, al pecorino sardo Castenuri, alla Certosa, alla caciotta e al salame Milano (confezioni da 3 kg). E dunque: tutto questo i lavoratori riferiscono – prove alla mano – al direttore del personale. È il 14 novembre del 2005. L’incontro avviene in un hotel di Perugia.

“C’è da vergognarsi”, “i capi sanno tutto”, “se vengono fuori queste cose, l’azienda chiude domani”. Di fronte all’outing degli addetti, il dirigente promette interventi immediati, ma allo stesso tempo li dissuade dall’intraprendere eventuali azioni di denuncia. “Certo, bisogna intervenire… – dice – metti che qualcuno si sente male dopo aver mangiato sta roba, ma non sia mai che stè notizie escano fuori di qui”.

Passa un mese e Galbani corre ai ripari. Un ispettore amministrativo viene inviato nel deposito. Controlla la merce nei furgoni, accerta che è scaduta. Partono i controlli a campione in un paio di negozi. I formaggi e i salumi taroccati, quelli dove viene acclarato il “trucco” sulle confezioni, vengono acquistati dalla stessa azienda. Tolti dagli scaffali. Ma il sistema non cessa.
Di più. I vertici aziendali vengono informati anche del problema delle “carenze igieniche” durante le operazioni di stoccaggio della merce. Merce stivata fuori dalla celle frigorifere. A volte addirittura in “celle private” ovvero garage. Trasporto con mezzi non idonei. Finisce tutto nel dossier presentato in Procura. Viene in mente il rassicurante motto dell’azienda (“Galbani vuol dire fiducia”). Ma questa è un’altra storia.

(14 ottobre 2008)





La farsa della cerimonia d’apertura

14 08 2008

Avevo gia’ espresso le mie perplessita’ sulla cerimonia d’apertura delle olimpiadi di Pechino che, a mio avviso, era stata di una noia mortale.

Ora si scopre che:

Voto ancora piu’ negativo dunque..





Beppe al Parlamento Europeo

20 11 2007




Test per le intolleranze ? Un bluff

12 11 2007

ROMA — «Non è vero eppure ci credo». Deve essere questo il motto che ogni anno trascina migliaia di persone in farmacie, studi e laboratori dove si eseguono test per le intolleranze alimentari. «Inutili, vere truffe», secondo la medicina ufficiale che periodicamente, nel tentativo di stroncare il fenomeno, torna alla carica con editti di condanna. L’ultimo pubblicato su Medical Network, rivista dei medici specialisti ambulatoriali (riuniti nel Sumai).

Eppure la moda è più che mai in auge, mutuata dagli Stati Uniti nel 2000. I due terzi circa degli italiani che si fanno visitare dal medico per dimagrire confessano di aver provato almeno una volta il tricotest (analisi del capello), un vegatest (apparecchio che misura la reazione ai cibi) o un esame fondato sulla kinesiologia. Stringi in mano ampolline con estratti di sostanze a rischio per osservare eventuale perdita di forza muscolare.

Nel 90% dei casi la risposta è positiva. Si scopre di essere intolleranti a qualcosa. In genere latticini, cereali, frutta secca, salumi. I più calorici. E così il nuovo, presunto intollerante torna a casa determinato a tagliare dalla tavola i cibi incriminati. Giovanni Spera, presidente della società italiana contro l’obesità, non ha dati numerici ma conferma: «Quasi tutti abboccano, si fanno abbindolare dalla suggestiva teoria secondo cui non si dimagrisce perché si mangia ciò che il nostro corpo rifiuta. Un facile alibi per dire a se stessi che non è colpa nostra».
Su Medical Network un allergologo dell’azienda Asl di Reggio Emilia, Gianluigi Rossi, dopo aver analizzato la letteratura scientifica disponibile conclude: «Emergono con chiarezza l’inconsistenza e le contraddizioni, terminologiche e concettuali, dei sostenitori. Non esiste alcun esame di laboratorio in grado di valutare la presenza di un’allergia o intolleranza prescindendo dalla storia clinica ». Ancora più grave, insiste Rossi, è che le indicazioni dietetiche vengono prescritte per corrispondenza.

Durissima la posizione di Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale: «Sono esami destituiti di ogni fondamento, truffe. Malgrado diverse società scientifiche si siano espresse come noi, la gente non cambia atteggiamento. Le conseguenze sul piano nutrizionale possono essere pericolose».
La popolarità delle intolleranze è alimentata dal passaparola, dai racconti di dimagrimenti miracolosi legati alla scoperta che l’organismo non sopporta certe sostanze. Dalle promesse di operatori non sempre ben documentati, quasi mai medici. «Queste indagini funzionano. Ma tutto dipende da chi le utilizza, ognuna di esse può avere risultati eccezionali. Fra di noi ci sono persone serie e meno serie», difende i test su cui si fondano le diete alternative Mario Mauro Mariani, docente di omotossicologia, Comitato per le medicine non convenzionali. Il problema, aggiunge, è che si tratta di sistemi difficilmente ripetibili «e comunque un accurato intervento deve basarsi sulla storia clinica del paziente».

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L’allergologo Claudio Ortolani parla di tecniche illogiche che costituiscono il pretesto per diete rotatorie: «Si tolgono a rotazione i cibi sospetti. All’inizio in effetti si perde qualche chilo, ma succede lo stesso con i placebo. Poi torna tutto come prima ». La nutrizionista Gigliola Braga, nota per il sostegno alla dieta a Zona, non utilizza i test: «Di intolleranze non si ingrassa. Per curiosità statistica segno sulla scheda dei miei pazienti se ne hanno fatti. E la maggior parte ci sono cascati ».

Margherita De Bac per Il Corriere della Sera
02 novembre 2007