Il Paese piu’ bello del mondo

17 02 2012

Milano costa il doppio di Shanghai

Sono stato quattro giorni durante le vacanze di Natale, il prezzo della stanza base è di Yuan 1700,00 pari a € 206,41. Vuol dire che due persone possono alloggiare pagando € 103 a testa, una cifra che neppure nelle pensioni attorno alla Stazione Termini a alla Stazione Centrale di Milano si riesce a spuntare.
Devo andare a Milano nei prossimi giorni e ho guardato quanto costa la stanza base del Park Hyatt Milan, la Park King, il prezzo è € 500.
Andrò in un altro albergo.

Anche i commenti mettono tristezza.





No say cat…

15 11 2011

di Fabrizio Casari

L’uscita di scena, normalmente, è parte della recita e, tanto quanto la recita, indica le qualità di un buon attore. Quella di Berlusconi è stata in linea con il personaggio: un inchino dovuto agli applausi dei comprimari, un gesto di sfida verso il nuovo set che si va allestendo. L’inchino agli applausi dei comprimari è un ringraziamento sentito: il do ut des che ha permesso a oscuri personaggi di quarta fila d’ingrassare e ingrossare il proprio curriculum in cambio del servile contributo alla causa dei suoi interessi che ha caratterizzato i diciassette anni lungo i quali si è snodata l’avventura del cavaliere.

L’ultima seduta della Camera con Berlusconi a capo del governo è arrivata a seguire l’ultimo Consiglio dei Ministri, malinconico e privo di futuro. Perché Berlusconi potrà anche ricandidarsi, potrà anche cercare l’ennesimo colpo di reni, ma non sarà più quel che è stato, alfa e omega di un blocco sociale, verbo del nuovo qualunquismo, occasione di liceità per gli impulsi impolitici di un Paese da sempre ostile al frequentare la responsabilità e il senso dello Stato che caratterizzano le grandi nazioni.

Berlusconi è stato molto amato dai suoi e molto detestato da chi suo non lo era o non rimase tale sempre. Le facce, il corpo, le parole e gli atti di un modo di governare indifferente al senso dell’opportunità, al dovere della responsabilità verso il Paese lo hanno contrassegnato. Nella storia delle diverse stagioni della politica italiana, quello di Berlusconi è stato l’unico regime concepito, costruito e alimentato per e con la supremazia degli affari privati del capo. Le sue aziende e la loro fortuna, i suoi vizi privati e un piccolo esercito chiamato a servire l’imperatore e a servirsi a sua volta dell’impero, non hanno conosciuto precedenti simili, a nessuna latitudine. Nulla, nel suo governare, ha avuto il segno del bene comune, tutto è stato ad personam, persino la legge elettorale.

Ma il personaggio non è stato solo questo. Berlusconi è stato capace di tenere insieme l’establishment e gli esclusi, faccendieri e politicanti, evasori e corruttori, vittime e carnefici, trasformando il Paese intero in un palcoscenico dove attori e comprimari si scambiavano i ruoli. Ed è stato capace di creare un blocco sociale di consenso numericamente enorme, anche perché socialmente trasversale: operazione resa possibile, soprattutto, da un’abilità straordinaria nella propaganda politica.

Compito certo resogli più facile grazie alla sproporzione di mezzi a disposizione nei confronti degli avversari, ma onestamente frutto anche di una capacità superiore nel saper interpretare gli umori popolari, nel saper elevare gli istinti più beceri dell’egoismo nazionale a senso comune, nel saper piegare i bisogni collettivi ai suoi bisogni familiari. Il tutto sempre con la capacità di occupare il centro della scena, di saper imporre la sua agenda privata sulla congiuntura politica.

E anche nelle modalità dell’ultima crisi, quella finale, è stato capace di sceglierne i tempi, i riti, le gestualità; scansata la sfiducia per non cadere sul campo, ha scelto quando uscire, come uscire e il modo di uscirne, pur nell’ambito di un epilogo inevitabile: insomma una regia ad personam per il suo ultimo film.

L’anomalia di Berlusconi, però, non è stata solo quella di scegliere i tempi e le modalità di comunicazione della politica, ma anche quella di governare per diciassette anni senza avere un progetto per l’Italia, considerata sempre e solo il bacino di utenza delle sue ambizioni, del suo narcisismo, dei suoi affari. Mai nel cavaliere è prevalsa un’idea di modello di società da proporre, bensì la progressiva destrutturazione di ogni cemento sociale e culturale, obiettivi ai quali ha dedicato ogni energia, ogni mezzo, lecito e illecito. E’ sceso in campo con la forza delle sue televisioni e dei suoi miliardi, riuscendo a moltiplicare la sua presenza nel sistema mediatico e costruendo la sua vera fortuna patrimoniale.

Nella giornata appena conclusa si è riproposta, nel perimetro di Montecitorio, la storia di questi diciassette anni: lui al centro dell’emiciclo che riceve gli applausi dei suoi deputati, mentre fuori persone di ogni età applaudivano alla sua uscita di scena. Opposte fazioni per opposti applausi. Non poteva uscire diversamente chi, per il suo ego debordante, dell’applauso e persino dei fischi ha avuto sempre bisogno per poter dimostrare di essere comunque, nella vittoria e nella sconfitta, unico destinatario dell’attenzione generale.

Per la prima o per l’ultima volta quelle persone che l’hanno sempre detestato e combattuto l’hanno in qualche modo salvato da una fine anonima, dal nulla che incombeva. L’assenza di festeggiamenti per la sua uscita avrebbe potuto ferirlo davvero; si sarebbe sentito, per una volta, un uomo qualunque, vittima dell’indifferenza dei più, della scrollata di spalle collettiva, incamminato su una corsia preferenziale verso un limbo inaspettato. Ma ha dovuto lasciare il Quirinale da un’uscita secondaria e rientrare a casa da un’altra entrata secondaria per evitare immagini a testa bassa. Perché le persone prima o poi se ne vanno, ma le foto della sconfitta restano per sempre. Letali.





Lo schifo persiste #39

26 08 2011

Fabrizio d’Esposito per “Il Fatto Quotidiano

RAFFAELE FITTO

 

La Casta Express viaggia in orario, protetta e nella massima pulizia. L’ultimo caso riguarda le vacanze estive del ministro pugliese Raffaele Fitto, che nel governo Berlusconi ha una delega senza portafoglio: i Rapporti con le regioni e la Coesione territoriale.

La storia è stata raccontata ieri dal manifesto. Fitto e i suoi familiari sono partiti in treno il 7 agosto dalla loro città, Lecce, per raggiungere Bolzano e poi Renon, sempre in Trentino Alto Adige. Un viaggio lungo, in vagone letto extralusso Excelsior. Cinque giorni prima alla direzione passeggeri di Trenitalia (società per azioni di proprietà del Tesoro) arrivano le richieste del ministro, che vengono messe nere su bianco in un carteggio interno via mail.

Il primo avviso: “Un ministro viaggerà con famiglia (2 adulti + 2 bambini) in Excelsior sul seguente itinerario: 7 agosto – Lecce/Bolzano – 924 -vettura 10 – compartimenti 81/82 – 91/92. 21 agosto – Bolzano/Lecce – 925 – vettura 10 – compartimenti 81/82 – 91/92. Il Ministro si è raccomandato per sicurezza a bordo treno ed assistenza (avranno due compartimenti adiacenti sia all’andata che al ritorno)”. La mail viene girata ad alcuni dirigenti e c’è la direttiva finale: “Riservata. Massima attenzione alla pulizia e al servizio offerto, compreso equipaggi, loco, puntualità e sicurezza patrimoniale”.

Ad agosto, per i vacanzieri “normali” è stato quasi impossibile viaggiare sui “treni notti”: ridotte o cancellate le prenotazioni di cuccette e vagoni letto a causa dello sciopero dei lavoratori di una ditta esterna per la manutenzione, cui lo stipendio non arriva da mesi. Per il ministro, invece, nessun problema. Anzi. Chiede pure la disponibilità di due compartimenti comunicanti e non adiacenti. La famiglia Fitto si muove in Excelsior: suite matrimoniale e doccia. C’è poi il mistero di una carrozza in più aggiunta al convoglio. Il viaggio d’andata del 7 si svolge come previsto. Quello del ritorno, il 21 agosto, non ci sarà: il 19 un’altra mail informa che è stato annullato.

Ieri Trenitalia ha smentito ogni “trattamento di favore”. In una nota scrive: “In primo luogo il ministro ha prenotato e pagato il viaggio autonomamente. Non è stata approntata alcuna modifica speciale alla composizione del treno. La sua vettura era infatti quella regolarmente prevista; l’altra viaggiava fuori servizio per un normale invio tecnico, insieme ad una seconda vettura. Erano entrambe chiuse e non prenotabili”.

E ancora: “I biglietti sono stati acquistati molti giorni prima che lo sciopero degli addetti alla manutenzione delle vetture letto riducesse la possibilità di impiego di quest’ultime ed esaurisse, di fatto, la disponibilità di biglietti. Il ministro aveva inoltre chiesto, se possibile , di modificare la prenotazione per avere due compartimenti adiacenti e comunicanti. Ha conservato i posti già acquistati. Anche in questa circostanza, quindi, nessuna eccezione ad personam. Il viaggio non ha infine comportato, per l’azienda, alcun costo aggiuntivo”.

E l’evidenza della mail interne? Qui Trenitalia ammette però la diversità della casta dai comuni mortali: “È prassi aziendale che, ogniqualvolta Trenitalia venga a conoscenza della presenza, sui propri treni, di alte autorità dello Stato, attivi le proprie strutture per assicurare massima attenzione, in particolare sotto il profilo della security. Non ha fatto eccezione neppure il viaggio del ministro Fitto”. Un viaggio privato per fare le vacanze, non istituzionale. E che ha comportato l’impiego di un agente della security ferroviaria, la cosiddetta Protezione aziendale composta da 350 uomini.

Del resto, spiegano da Trenitalia, la protezione dei politici è di fatto quotidiana, da quando all’aereo viene preferita l’alta velocità dei treni. Funziona così: dal cerimoniale dei ministeri parte la segnalazione che poi viene girata alla security. “Prassi aziendale”, appunto, che “vale per il governo Berlusconi come in passato per quello di Prodi”. Senza contare che la casta di deputati e senatori ha diritto al biglietto differito, che viene pagato cioè in un secondo momento dalla Camera di appartenenza. A spese dei contribuenti.

FITTO E D’ADDARIO

 

Quello del treno è il più antico dei privilegi della politica. Anche se tutto iniziò con una bocciatura. Il 29 giugno 1861, a Torino, il Senato disse no alla proposta del treno gratis, soprattutto per i parlamentari provenienti dal sud. A chi protestò, fu risposto: “Servire il Paese è un privilegio, pari al dovere. Chi lo ha fatto in armi ha rischiato tutto, compresa la vita, senza altro chiedere. La mercede è da mercenari, non da patrioti, non sia mai”. Altri tempi. “La prassi aziendale” non c’era ancora. Mentre Trenitalia si è spesa in una lunga autodifesa, il ministro Fitto si è limitato a definire la vicenda “paradossale”.

Classe 1969, Fitto si ritrovò in politica poco più che ventenne, dopo la morte in un incidente del papà presidente della Regione Puglia. Democristiano poi berlusconiano, è un perdente di successo del Pdl. Nel 2005, da governatore uscente, fu battuto da Nichi Vendola. Venne “ricompensato” nel 2008 con un posto da ministro. Nel 2010, infine, impose al premier, sempre in Puglia, la candidatura a presidente dello sconosciuto Rocco Palese. Altra sconfitta.

Coinvolto in due inchieste, dal peculato alla corruzione e al finanziamento illecito dei partiti, Fitto è uno dei accesi sostenitori, con la corrente dei quarantenni, del nuovo segretario del Pdl Angelino Alfano. Anche Fitto, quindi, è un teorico del partito degli onesti con Papa e Milanese. Un partito degli onesti che viaggia comodamente sempre, in vacanza o per lavoro.





Contan-Ticino

24 08 2011

Cinzia Sasso per “La Repubblica

Sede della Banca Centrale Svizzera

La ragazza bionda con il tailleur firmato Prada, risponde con una gentilezza esagerata: certo che si può aprire una cassetta di sicurezza, costa dai sessanta ai trecento franchi, a seconda della dimensione; poi ci sono dieci franchi di tassa cantonale e comunque il pagamento è di un anno anticipato. Può tenere lei la chiave, ed è più caro; oppure la conserviamo noi».

La Banca Raiffeisen di Lugano è pronta all´emergenza: ecco un pieghevole che spiega tutto, nonostante la richiesta, le tariffe sono ferme al gennaio del 2011; ed ecco anche il biglietto da visita del consulente finanziario, «perché la cosa migliore è aprire anche un conto corrente. Non esiti a chiamarlo, la riceverà subito». Sulle sedie in pelle nera di Le Corbusier, nella penombra della sala d´aspetto, siedono una signora e un uomo corpulento di mezza età. Italiani, si direbbe. Italiani che sono tornati ad essere innamorati della Svizzera.

C´erano una volta gli spalloni. E sembrava che quella fosse un´epoca finita, relegata nel passato, cancellata dai solerti finanzieri che tengono sotto stretta osservazione i valichi di frontiera. Ma la crisi finanziaria, l´incertezza dei mercati, la paura per quel che sarà, è come se avesse riaperto le frontiere immaginarie. E il Canton Ticino, meno di un´ora da Milano, sempre ospitale e riservato, è tornato ad essere l´ancora di salvezza per gli italiani che non si fidano più della loro Italia.

Raccontano, dal centro Studi Fiscali Internazionali di Lugano, che i capitali stanno tornando massicciamente in Svizzera: «C´è molta sfiducia nel sistema Italia, c´è paura di una nuova aliquota supplementare sui capitali rientrati con lo scudo di Tremonti, c´è il fantasma della patrimoniale. Molti italiani hanno aperto conti correnti, c´è perfino chi ha deciso di spostare oltreconfine la propria residenza, ma molti tengono addirittura i soldi in cassette di sicurezza». Un dato dà corpo alle inquietudini: i conti correnti degli italiani, calcola la Banca d´Italia, è come se si fossero prosciugati, facendo registrare a giugno un meno 23,4 miliardi di euro di depositi.

Non è solo per i benestanti che cercano tranquillità per i loro beni, ma certo il menù italiano dell´Osteria Centrale – lunedì polpette, martedì amatriciana, mercoledì pizza – è un segnale. Tutti i tavoli occupati: tante coppie, pochi giovani. Risulta agli ambienti finanziari milanesi che molti correntisti si sono presentati il venerdì alla propria banca e hanno trasferito tutti i loro averi in assegni circolari per riportarli il lunedì, a week-end finito, dopo aver tirato un sospiro di sollievo per il pericolo mancato, quello che pure ancora aleggia, di una tassa di solidarietà.

Risulta anche che ci sia stata una massiccia ondata di acquisiti di lingotti d´oro. La vacanza in Sardegna di un private banker non è mai stata tanto disturbata: «I clienti sono terrorizzati, mi chiamano per avere dei consigli, la sfiducia nel mondo e nei nostri governanti è totale, vedo riprendere un fenomeno di fuga dei capitali che non si vedeva più almeno da vent´anni».

banca arner

Paolo Bernasconi, avvocato e gran conoscitore dell´Italia, ricorda i tempi andati, «quando si aprivano anche duecento conti di italiani al giorno». Oggi, dice, non è più così: l´accordo con la Germania per la tassazione dei capitali detenuti all´estero è un deterrente forte. Tremonti dice di non volerlo fare, ma durerà Tremonti? Così gli italiani non sanno cosa fare e pensano alla soluzione “fai da te”: invece che sotto il materasso, mettono i soldi nelle cassette di sicurezza delle banche.

Cash, a disposizione, in attesa che passi la nottata. Alla Banca del Sempione chiedono però un deposito di almeno 30-40mila euro; al Credit Suisse vogliono conoscere anche stipendio e professione; all´Ubs smentiscono la corsa alla cassette, “i giornali ne scrivono di tutti i colori”. Aggiunge Bernasconi: «La cassetta di sicurezza è la punta di un iceberg, è il simbolo della ricerca disperata di un rifugio».

Non sono solo gli italiani, martellati ogni giorno dall´effetto annuncio, a essere preoccupati. In Svizzera, la situazione generale finanziaria dell´Italia è tenuta sotto stretta osservazione, se è vero che nelle ultime due settimane l´autorità di vigilanza, la Finma, ha inviato due lettere alle filiali di istituti finanziari proprietà di banche o assicurazioni italiane. Teneteci informati – hanno scritto – su ogni pagamento che fate alla casa madre, sia sotto forma di dividendi che di rimborsi. Che è insomma come metterle sotto tutela.

Anche se non è solo l´Italia a navigare in acque tempestose. Perfino nell´ordinata Svizzera, un cartello avverte alla frontiera: attenzione, il prezzo della vignetta, la tassa per circolare sulle autostrade elvetiche, è fluttuante. Oggi costa 40 franchi. Domani, però, chissà.





Zara mi ha sempre fatto schifo. Ora piu’ che mai.

20 08 2011

P. DM. per “La Stampa”

ZARA

La griffe spagnola Zara è accusata di usare mano d’opera in Brasile in condizioni di lavoro vicine alla schiavitù. Lo hanno scritto ieri i maggiori quotidiani brasiliani, dopo che il ministero del lavoro di Brasilia ha avviato un’inchiesta in seguito a una denuncia sulle condizioni disumane di lavoro in un laboratorio clandestino di San Paolo. Secondo la denuncia, 16 persone, per lo più boliviani e peruviani, fra i quali 14enne, lavorano 12 ore al giorno, senza pausa domenicale, né ferie.

«Abbiamo trovato bambini esposti a rischio, macchine senza protezione, fili elettrici a vista, locali insalubri con molta polvere e senza circolazione d’aria, senza luce solare – ha detto al «Globo» il funzionario del ministero del lavoro, Luis Alexandre de Faria, che ha partecipato a due blitz in fabbrica -. I lavoratori dovevano chiedere autorizzazione al proprietario del laboratorio per uscire e dovevano comunicare dove andavano». La retribuzione, inoltre, è pari a 100 euro al mese, anche se il salario minimo previsto dalla legge brasiliana è di 247. Altre ditte che lavorano per Zara sono state scoperte in situazioni irregolari alla periferia da San Paolo e ad Americana, 100 chilometri dalla capitale paulista.

ZARA

I laboratori sono stati denunciati per 48 infrazioni, come eccesso di ore al giorno, mancata iscrizione nel libretto di lavoro, mancata concessione di riposo settimanale e ferie, mancanza di estintori di incendio, di illuminazione adeguata, di acqua potabile, e di sedie idonee. In un comunicato rilasciato in Brasile, la Inditex, proprietaria di Zara, ha informato che c’è stata una terziarizzazione non autorizzata di un fornitore (la ditta Aha) che avrebbe commesso un’infrazione al suo codice di condotta che stabilisce norme per i latori di commessa diretti e indiretti. La Foha de S. Paulo aggiunge che solo in Brasile il gruppo spagnolo ha 50 fornitori fissi che impiegano circa 7 mila lavoratori.





Lo schifo persiste #36

13 08 2011

MILANO – Dopo averdivulgato il menu di palazzo Madama ora il web butta in pasto al pubblico anche la carta del ristorante di Montecitorio. E se Sparta piange, Atene non ride. Anche alla Camera si mangia a «prezzi stracciati». E ovviamente gli euro sborsati dagli onorevoli non bastano a pagare le spese.

ALLA CAMERA – Qualcuno – dopo quello del Senato – ha trafugato materialmente anche un menu del ristorante dei deputati e lo ha pubblicato tale e quale. A Montecitorio i prezzi sono più alti ma niente a che vedere con quelli che tutti i giorni si vedono al supermercato. Qualche esempio: un piatto di pasta varia dai 2 euro, quella con patate e zucchine, ai 5 e 30 del risotto con gamberi e pachino. Quanto costerebbe questo piatto al ristorante? Non meno di 12-15 euro. Esattamente un terzo. E via di questo passo con i secondi che variano dai 4 euro di una leggera insalata di pollo ai 5 e 30 del carrè di agnello al forno. Insomma prezzi fuori mercato.

QUANTO CI COSTA – Al Senato per ogni coperto del ristorante si deve raddoppiare la cifra corrisposta dai commensali. L’operazione costa ai contribuenti circa 1.200.000 euro l’anno. Una realtà svelata dal deputato dell’Idv Carlo Monai al settimanale l’Espresso. Il web ne riprende la foto del menu: apriti cielo. Risultato su Corriere.it: in trecentomila hanno preso visione dei privilegi a tavola dei senatori italiani e una parte ha inondato il nostro sito, e blog vari, di commenti ironici e furiosi. Un coro: «Allora tutti a mangiare al Senato!». Un successo mediatico. Tant’è che a fine serata il presidente del Senato Renato Schifani ha fatto sapere che i prezzi della ristorazione interna verranno presto adeguati ai costi effettivi. Intanto però sarebbe utile sapere da quando saranno «attualizzati» i prezzi. Anzi, ancora più importante sarebbe annunciare i sacrifici che si chiedono agli italiani contemporaneamente a quelli che farà la «casta». Vedremo .

Il deputato Carlo Monai (Idv)
Il deputato Carlo Monai (Idv)

LE PROPOSTE – Ma non è solo il web a indignarsi. «Rinnovo la mia proposta al collegio dei questori del Senato di rinunziare agli alloggi di servizio e di trasformare tutti gli attuali centri di spesa del Senato (ristorante, buvette, barberia (gratis, ndr), spaccio, banca, infermeria) relativi ai servizi resi ai senatori e agli ex-senatori a prezzi politici in centri di utili, affidando con regolare gara a società esterne qualificate i servizi stessi da pagare, da parte dei parlamentari ai prezzi correnti di mercato» Queste non sono le parole anonime di un commentatore su Internet bensì pensieri «pesati» di un membro della commissione Affari Costituzionali: il senatore pidiellino Raffaele Lauro. E allora da dove iniziare? «La Camera dei deputati, grazie alla chiusura della mensa di San Macuto, risparmierà un milione di euro – afferma il questore della Camera Antonio Mazzocchi – Inoltre, resta valida e confermo la mia proposta di sostituire tutte le mense della Camera con un unico self service con i relativi costi dei pasti a totale carico di chi ne usufruisce. Il risparmio accertato sarebbe almeno di 4-5 milioni l’anno». Ma anche il web suggerisce: «Auto blu, voli blu, tassi del mutuo scontati, occhiali gratis, psicoterapia pagata, massaggi shiatsu, balneoterapia, cure termali…». Intanto il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, lancia una proposta via twitter: @DeBortoliF«Chiudere i ristoranti di Camera e Senato e dare ticket agli onorevoli»





Carramba che sorpresa !

23 07 2011

Livia Manera per il “Corriere della Sera”

Questa è una storia sorprendente, una storia conosciuta a pochi e una storia molto americana, accaduta quando a New York – poco dopo la metà degli anni 80 – Andy Warhol teneva spettralmente corte nei ristoranti alla moda di Downtown, i mercanti d’arte si litigavano i quadri di Jean-Michel Basquiat, e i lettori e i critici, per una volta d’accordo, incoronavano star letteraria dell’anno una ragazza di ventinove anni che si chiamava Mona Simpson e aveva appena pubblicato un bel romanzo d’esordio intitolato «Anywhere but here» («Dovunque ma non qui» , nell’edizione Mondadori).

Mona SimpsonMONA SIMPSON

 

Ricordo ancora come cominciava: due parole seguite da un punto che ai miei occhi portavano la firma di Gordon Lish, l’editor che sarebbe stato riconosciuto- non senza polemiche e strascichi- come l’inventore del minimalismo americano. Erano gli anni in cui Lish, lavorando alla Knopf, infieriva genialmente sulla prosa di Raymond Carver – ma anche di altri – mozzando interi paragrafi e facendo strage di aggettivi e avverbi che non corrispondevano alla sua estetica inflessibile.

Non so se fosse sua o di Mona Simpson la scelta dell’incipit di «Anywhere but here» : «We fought» . Ma so che suonava più aggressivo del nostro «Litigavamo» , e che aveva il sapore e l’intenzione di una di una sfida. Quella di raccontare il turbolento rapporto tra una ragazzina dodicenne e la sua giovane madre, che a bordo di una Lincoln Continental fuggono da un’esistenza mediocre attraverso un’America assolata e poco ospitale. Il padre della ragazzina le aveva abbandonate. Era un romanzo che colpiva, letterario e muscoloso, ma in Italia sarebbe passato inosservato.

MONA SIMPSONMONA SIMPSON

Accade dunque che a New York, nel dicembre del 1986, Mona Simpson dà una cena nel suo appartamento dell’Upper West Side per una dozzina di persone, tra cui i miei migliori amici- lui scrittore, lei storica dell’arte – che mi estendono l’invito. C’è l’aria calorosa di una celebrazione in famiglia (la famiglia dei giovani newyorkesi sradicati, cioè il giro degli amici stretti), e a tavola mi accorgo di conoscere tutti i presenti, tranne un ragazzo a cui do non più di venticinque anni (ne aveva qualcuno di più), che siede davanti a me ed è troppo sicuro della propria intelligenza per essere simpatico.

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“COME HANNO FATTO GLI ITALIANI A VOTARE PER BERLUSCONI? SIAMO FREGATI PER SEMPRE” parola di Tiziano Terzani

18 07 2011

Colloquio con Angela Terzani di Malcom Pagani per l’Espresso 

Ora, dice Angela Terzani, «è tempo di raccontare un altro Tiziano». E si siede, tra volumi di Régis Debray, teli indiani e ragnatele, al centro di un ricordo. Orsigna, tra Pistoia e il cielo, è un’astrazione appenninica. Quattro case nel nulla del tutto, dove il figlio di un meccanico comunista e una ventenne tedesca di stirpe diplomatica, si issarono al principio degli anni Sessanta.

Erano due ragazzi. Le tasche vuote. I sogni incerti. La montagna di fronte. Le estati a incastrare le pietre di fiume, interrogare i castagni, pitturare le pareti, attenti a richiudere, al tramonto: «Il nostro sipario tra noi e il mondo». Angela è salita in macchina a Firenze e ha aperto un varco per “l’Espresso”. Con un mazzo di foto sulle ginocchia, i capelli biondi, l’emozione incerta di chi spalanca il sacrario di un’esistenza.

Intorno, mentre il sole della mattina si trasforma in pioggia e le zanzare danzano, l’ultima stazione del giornalista che narrò il Vietnam si rivela per la giungla che è. Tutto è scomodo, precario, essenziale. Le gocce battono su una tettoia di plastica, i tuoni rincorrono il silenzio, la natura veste chiome selvagge, i chiodi arrugginiscono, anche a 800 metri d’altezza. Angela ti offre un caffè, manca lo zucchero. Niente serve davvero, in fondo. I Terzani l’hanno capito.

Tavole di legno, mura rosse, persiane grigie, salici piangenti e, intorno, la valle. Dietro il velo, un’empatia profonda tra luoghi e persone. Una semplicità da pionieri. Dopo quasi mezzo secolo di pericoli e viaggi, nel luglio di sette anni fa, Tiziano Terzani venne a morire qui, nel posto «più esotico» della sua geografia sentimentale. Dove le fiabe, le streghe e i contrabbandieri si smarriscono nella leggenda e i daini, di notte, si riappropriano del territorio. Esplorano il giardino. Smuovono il terreno. Scavano buche. Bussano alle stanze.

terzani tiziano 001TERZANI TIZIANO




Cronache di Christiania

11 07 2011

di Emanuela Pessina

BERLINO. Nella “città libera” di Christiania, a Copenaghen, dal 1971 vige l’anarchia: la polizia danese può entrare solo con un permesso speciale e non è ammessa la proprietà privata. Con il tempo il quartiere è diventato un esperimento sociale di grande interesse, ma non ha mai incontrato le simpatie dello Stato, che ha tentato più volte lo sgombero senza successo: la città autogestita è diventata una delle attrazioni turistiche principali della capitale danese e parte della sua identità. Tanto che lo Stato ha proposto ora agli abitanti di Christiania di riscattare il proprio quartiere e conquistarsi così una nuova libertà: 10 milioni di euro per la legalizzazione di Christiania. Sintomo di un’era in cui tutto si può comprare, anche l’anarchia.

Il mito di Christiania è cominciato quarant’anni fa con l’occupazione abusiva di una base navale dismessa di 34 ettari nel bel mezzo di Copenaghen. A prendere l’iniziativa sono stati alcuni cittadini danesi alla ricerca di condizioni di vita migliori per le proprie famiglie. Abbandonato e ricoperto da prati e alberi, il terreno in questione era protetto da una semplice palizzata di legno: abbattere quelle assi era sufficiente per provare a costruire qualcosa di nuovo, gli anni Settanta permettevano ancora di sognare.

Non ci è voluto molto perché ai pionieri dell’occupazione di Christiania si aggiungessero gli hippies e gli anarchici, le comunità alternative più numerosa di quel tempo: il quartiere ha continuato a crescere come uno Stato dentro lo Stato, con le sue idee e le sue utopie, ed è riuscito a mantenere alta fino a oggi la sua bandiera di “Città libera”.

Ma lo stato danese non ha potuto perdonare. Già dall’inizio uno sgombero era impensabile, gli hippies coinvolti erano tanti e la superficie occupata non indifferente. Ed è così che già nel 1971 è cominciata la piccola guerra provata fra Christiania e la Danimarca. Si sono alternati Governi diversi di vari schieramenti, ma tutti hanno tentato di cancellare Christiania, passando indistintamente dalle maniere forti alle vie giuridiche. A Christiania ha regnato fin dall’inizio l’anarchia, un’emancipazione che pochi Stati moderni, benché liberi e democratici, si permettono di accettare di buon grado: sordo alle leggi danesi, il quartiere anarchico di Christiania ha sempre avuto regole autonome che, seppur in piccolo, andavano a mettere in discussione la sovranità stessa della Danimarca.

A Christiania la polizia può entrare solo con un permesso speciale. Non ci sono auto, ci si muove in bicicletta. Gli abitanti versano in una cassa comune un fisso mensile di 240 euro a testa, indipendentemente da dove vivono e cosa fanno. Assieme ai guadagni raccolti dalle attività di negozi, teatri, ristoranti, librerie, locali musicali e di artigianato, completamente autogestite, il contributo fisso va a saldare le tasse per acqua, gas e riscaldamento. Come in Olanda, e a differenza della Danimarca, vengono tollerate le droghe leggere. Oggi a Christiania vivono più di 700 adulti, in passato si è arrivati anche a 2000 abitanti.

E ora il colpo di coda finale del Governo danese. Dopo quarant’anni di ostilità, lo Stato ha fatto la sua proposta indecente agli abitanti di Christiania: riscattare economicamente il terreno su cui sorge il quartiere e mettere così la parola fine alla lunga diatriba legale. Dopo svariati settimane di riflessione, gli abitanti di Christiania hanno accettato l’accordo e, a quanto pare, acquisteranno il diritto di usufrutto sull’intero complesso residenziale per l’equivalente di circa 80 milioni di corone danesi.  Dieci milioni di euro per assicurarsi la libertà.

Gli avvocati che hanno concluso l’affare per il quartiere autogestito si dicono entusiasti e spiegano che la somma da corrispondere per Christiania è un decimo del valore effettivo dell’area. Gli abitanti stessi hanno deciso di emettere delle azioni per permettere alla gente di supportare la causa: Copenaghen ama la sua Christiania e, nessuno ha dubbi in proposito, la sosterrà. Per una piccola parte, Christiania verrà affittata. La maggior parte del fondo, invece, verrà stanziato da normalissime ipoteche sugli edifici.

Christiania si è riscattata e, firmando l’accordo, ha raggiunto la condizione di città giuridicamente “libera”.  “Da luogo di anarchia, Christiania si trasformerà in un esperimento sociale legale e di grosso interesse”, ha commentato soddisfatto Knud Foldshack, l’avvocato dei 700 inquilini anarchici. Che, da parte loro, non mancano di rassicurare: il diritto di possesso rimarrà della collettività e Christiania continuerà rifiutare qualsiasi tipo di proprietà privata.

Il compromesso tuttavia rimane e gli idealisti fanno fatica ad accettarlo perché è costato di più di 10 milioni di euro. È difficile immaginarsi una piccola “isola che non c’è” anarchica legata a ipoteche bancarie: se il fine giustifica i mezzi, allora sì, Christiania è libera. Ma se si cerca una giustificazione ideale a tutto, allora Christiania non è più libera: ha semplicemente scelto la via per sopravvivere. La sovranità esercitata nel rispetto tutti i regolamenti edilizi vigenti.





Agromafie e Made in Italy

9 07 2011

di Alessandro Iacuelli

La presentazione di un rapporto, il primo tra l’altro, sulle infiltrazioni mafiose nel settore alimentare dovrebbe essere una notizia importante, di quelle che trovano ampio spazio nei notiziari. Così non è stato, come per tante altre cose, ed è subito caduto nel silenzio il 1° Rapporto sulle Agromafie, presentato da Eurispes e Coldiretti.

Per la prima volta è stato analizzato il fenomeno della criminalità organizzata che agisce nel comparto agroalimentare, che crea un vero e proprio business parallelo e finisce per arrivare sulle tavole degli italiani aumentando i prezzi e riducendo la qualità dei prodotti acquistati dai consumatori, danneggiando allo stesso tempo anche le imprese impegnate a garantire gli elevati standard del Made in Italy alimentare.

I risultati presentati nel rapporto sono preoccupanti, al punto da meritare riflessioni e approfondimenti. Tanto per cominciare, ogni anno vengono sottratti al mercato regolare dell’agroalimentare 51 miliardi di euro. Cifra da capogiro, cifra da manovra finanziaria. Ed è un dato riferito al 2009, quando il settore dell’industria alimentare italiana ha registrato un fatturato complessivo di 120 miliardi di euro, secondo i dati presentati da Federalimentari, mentre il settore agroalimentare propriamente detto, escluso il settore della silvicoltura, ha registrato un fatturato di 34 miliardi di euro, dati secondo Ismea).

Quindi, il giro d’affari complessivo si aggira su circa 154 miliardi di euro, stiamo cioè parlando di 10% del Pil italiano 2009. Quasi un terzo di questa cifra, quindi una parte non trascurabile, è il bilancio delle mafie nel settore alimentare. Appare fin troppo evidente che si tratta di un dato preoccupante.

Il settore dove le mafie “sfondano” è quello delle false importazioni. Infatti, di tutte le materie prime importate, anche quando si tratta di alimenti una buona parte è classificata come “importazioni temporanee”, termine con cui s’intendono quelle importazioni di prodotti che vengono poi rivenduti sul mercato estero dopo una qualche trasformazione che avviene in Italia, ovvero importazioni di merci provenienti da uno Stato estero introdotte temporaneamente nel territorio nazionale a scopo di perfezionamento, e poi esportate di nuovo verso i Paesi di destinazione finale.

Queste merci, pur contenendo prodotti agricoli non italiani, data l’attuale normativa possono essere rivenduti all’estero con il marchio “Made in Italy”. Questo significa, dati alla mano, che su 27 miliardi di euro d’importazioni, una parte di queste materie prime importate sono state senz’altro riesportate come Made in Italy. Fa nulla se si trattasse di prodotti nord africani o sud americani. E secondo le stime presentate nel rapporto, almeno un prodotto su 3 del settore agroalimentare importato in Italia e trasformato nel nostro Paese, viene poi venduto sul nostro mercato interno e all’estero con il marchio Made in Italy.

Quindi non solo riesportazioni, ma anche introduzione nel mercato italiano di prodotti segnalati come italiani, ma che d’italiano hanno solo l’imballaggio o l’etichetta. Sulla bilancia dei pagamenti questo significa che almeno 9 miliardi di euro, nel solo 2009, sono stati spesi per importare dei prodotti alimentari esteri che sono poi rivenduti come prodotti nati in Italia.

Il dato che dovrebbe impressionare di più, come sottolinea il rapporto, emerge applicando questa proporzione al fatturato complessivo di 154 miliardi di euro: circa il 33% della produzione complessiva dei prodotti agroalimentari venduti in Italia ed esportati, pari a 51 miliardi di euro di fatturato, derivano da materie prime importate, trasformate e vendute con il marchio Made in Italy, in quanto la legislazione lo consente, nonostante in realtà esse possano provenire da qualsiasi parte del pianeta. E le organizzazioni criminali sono riuscite per prime a mettere le mani su questo “affare”, consentito da falle legislative, portando questo settore di business al terzo posto, dopo l’edilizia abusiva e l’ecomafia dei rifiuti.

E’ il primo identikit che tracciamo in Italia su questo argomento. Inquietante, spinoso e pericoloso poiché ce lo ritroviamo inconsapevolmente a tavola. Le mafie hanno dimostrato la capacità di condizionare e controllare l’intera filiera agroalimentare, dalla produzione all’arrivo della merce nei porti, dai mercati all’ingrosso alla grande distribuzione, dal confezionamento alla commercializzazione.

L’intero comparto appare caratterizzato da fenomeni criminali legati al contrabbando, alla contraffazione e alla sofisticazione di prodotti alimentari ed agricoli e dei relativi marchi garantiti, ma anche dal fenomeno del “caporalato”, che comporta lo sfruttamento dei braccianti “in nero” con conseguente evasione fiscale e contributiva. Ancora presto per tracciare i potenziali danni al sistema sociale ed economico che, secondo gli autori dello studio, “sono molteplici, dal pericolo per la salute dei consumatori all’alterazione del regolare andamento del mercato”.

Le mafie rappresentano ormai una vera e propria holding finanziaria in grado di operare sull’intero territorio nazionale, un business da 220 miliardi di euro l’anno, l’11% del prodotto interno lordo. Pertanto era destino che anche il settore alimentare dovesse prima o poi risultare appetibile. In conclusione, sono le associazioni criminali a determinare l’aumento dei prezzi, a proporsi sempre di più come “soggetto autorevole d’intermediazione tra i luoghi della produzione e il consumo, assumendo l’identità di un centro autonomo di potere”.

In un periodo come questo poi, caratterizzato da crisi economica, calo dell’occupazione e dei prezzi alla produzione, diviene facile per le agromafie investire i loro ricchi proventi in larga parte in attività agricole, nel settore commerciale e nella grande distribuzione: “La loro crescita ed espansione appaiono supportate dall’inadeguatezza del sistema dei controlli e della comunicazione dei dati e dalle informazioni, sia con riferimento alla fase dell’importazione dei prodotti agroalimentari, sia con riferimento alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita”, afferma la Coldiretti nel dossier.

E’ proprio l’organizzazione di categoria dei coltivatori, quella che si lamenta di più: “La situazione non migliora nel comparto vegetale dopo che nel 2010 sono stati importati ben 115 milioni di chili di concentrato di pomodoro, il 15 per cento della produzione nazionale”. I risultati, non economici, ma in termini di alimentazione e salute, li ha presentati la stessa Coldiretti, attraverso il suo presidente Sergio Marini, in un piccolo “salone degli inganni”.

Ce n’è per tutti i (pessimi) gusti: mozzarelle senza latte, concentrato di pomodoro cinese avariato e “spacciato” come Made in Italy, prosciutto ottenuto da maiali olandesi e venduto come nazionale con tanto di fascia tricolore, ma anche grandi marchi di vini contraffatti, olio di semi imbottigliato come extravergine o Chianti prodotto in California. Ci sono anche, identificati attraverso i reperti sequestrati nell’ambito delle operazioni antifrode delle forze dell’ordine, vini con marchi inesistenti o il miele con l’aggiunta illegale di zucchero. Non mancano neppure falsi prosciutti di Parma Dop. Latte, biscotti e succhi cinesi contenenti melamina. Falsa mozzarella di bufala Dop, falso aceto balsamico di Modena Igp e falso vino Amarone Doc.

Ora che questi meccanismi iniziano ad essere chiari, ora che iniziano ad essere studiati, appaiono in tutta la loro pericolosità tutti gli aspetti più inquietanti; e c’è da dire che, purtroppo, sulla penetrazione mafiosa in questo settore siamo certamente ancora alll’inizio.