Tenete d’occhio Vietnam e Indonesia

20 08 2011

Marco Alfieri per “La Stampa”

prezzi cinesi

Qualche mese fa il colosso dei giocattoli Wham-O, che produce frisbee e Hula Hoop per i ragazzini di mezzo mondo, ha riportato metà delle sue fabbriche dalla Cina in California e Michigan. Caterpillar, racconta il Sole 24Ore , per produrre la sua nuova escavatrice non ha scelto i costi bassi dell’Asia ma una cittadina della Carolina del Nord, che ha messo sul tavolo un pacchetto di incentivi da 14 milioni di dollari. La stessa Flextronics, che fornisce Cisco e Hewlett-Packard, sta pensando di ridurre la base cinese per puntare su un paese come il Messico. Poi c’è Ikea, che presidia coi megastore il mercato asiatico ma ha ormai ridotto sotto il 20% del totale acquisti le sue forniture cinesi.

CINA

Da qualche tempo la Cina sembra un po’ meno la fabbrica del mondo conosciuta e temuta negli ultimi 15 anni. Chi dava per morta la produzione nel vecchio Occidente affossato dalla crisi del debito, almeno su questo potrebbe ricredersi. E’ una specie di delocalizzazione di ritorno. «In Cina sta aumentando tutto», spiega Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia. L’inflazione è schizzata al 6,5%. I prezzi alla produzione sono cresciuti del 7% in pochi mesi, gli alimentari del 15, la terra del 20. Anche lo yuan è apprezzatissimo tanto che il vice di Obama, Joe Biden, in visita in Cina, ha chiesto alle autorità di Pechino di rivalutarlo.

Ma è soprattutto l’habitat produttivo a rincarare. «I 34 governi provinciali, indebitati fino al collo dopo il grande ciclo delle opere pubbliche, devono fronteggiare la stretta bancaria e immobiliare», dunque raschiano soldi dove possono torchiando le imprese: «sicurezza sul lavoro, norme antincendio, ambientali, tutte cose su cui prima sorvolavano», prosegue Forchielli. Nel frattempo «il costo del lavoro lievita del 20% l’anno, ben oltre una produttività frenata dai pochi investimenti in tecnologia e formazione. Ogni giorno ci sono operai e fornitori che chiedono l’aumento», raccontano i manager del fondo Mandarin.

Caterpillar

Secondo le stime di Boston Consulting Group, un salario medio cinese nel delta dello Yangtze fermo a 0,72 dollari l’ora nel 2000, salirà a 8,16 nel 2015. Vuol dire che il risparmio sui costi occidentali ormai non vale più del 15 per cento. Così sempre più aziende europee o americane si fanno un giro ma decidono di non aprire. E’ successo ad una grossa azienda chimica tedesca che ha appena disdetto un pre-contratto per andarsi a basare in Arkansas. Chi concepisce la Cina come pura base di esportazione, ormai ci pensa bene prima di venire.

Naturalmente Pechino resta la locomotiva del mondo. La produzione industriale tiene (+17% sul 2010), i consumi girano (+16%) e il Pil crescerà anche quest’anno all’8%, nonostante i tentativi di raffreddarlo per evitare di importare inflazione dagli Usa. Ma la transizione verso un modello meno centrato sul tridente «investimenti-produzione-export» e più attento alla domanda interna e ai servizi, sarà lungo e doloroso anche per gli scaltri timonieri del partito comunista.

A Dongguan, metropoli da 10 milioni di abitanti incastrata tra Shenzhen e Guangzhou, in pratica la principale base export del tessile e dei giocattoli made in China, se ne vedono i segni. Molte imprese stanno chiudendo per il calo della domanda estera e i costi fuori mercato: nel primo semestre dell’anno se ne contano già 265. Compresi due colossi da migliaia di posti di lavoro come il South Korean Suyi Toy Factory e la Chinese Dingjia Textile Factory.

ikea

La catena è infernale e apre veri e propri crateri sociali: i clienti europei e americani riducono gli ordinativi, le scorte si fermano in magazzino, il costo del lavoro e delle materie prime schizza e le banche non concedono i mutui necessari a pagare i fornitori. Tanto più su produzioni dove i margini non vanno oltre il 5% sempre più appannaggio di paesi low cost come Vietnam, Cambogia e Indonesia, scelte dalle grandi catene occidentali attentissime a limare i costi davanti a scenari di consumi deboli.

Paradossale, no? I paesi cintura stanno facendo quel che i cinesi fecero ai nostri distretti a metà anni 90: la concorrenza sul prezzo! Nel settore del pellame, ci sono aziende di Pechino che per difendersi stanno a loro volta delocalizzando in Africa…

Su prodotti più alti pesa invece la maturazione del consumatore occidentale. «La Cina può soddisfare alcune esigenze di base, ma ha sempre più difficoltà con i prodotti top», raccontano dalla Confindustria europea a Bruxelles. «Molti grandi buyer americani o tedeschi lamentano la scarsa fattura delle partite cinesi, e questo ci rimette in pista», rilancia un imprenditore tessile comasco. «Alcuni colleghi francesi che avevano venduto stanno riattando vecchie tessiture per tornare a produrre in casa».

Buon segno. «I cinesi non sono in grado di consegnare 30mila mq di piastrelle di buona qualità in due settimane dall’altra parte del globo, noi sì», s’inorgogliscono da Sassuolo. Il resto lo fanno i costi logistici e la scarsa tutela dei contratti. E’ la globalizzazione che si rimette in moto. Un’altra volta.





La crisi irlandese

7 02 2011

di Michele Paris

Lo scioglimento del Parlamento irlandese e le imminenti elezioni anticipate, rappresentano l’ultimo atto di una farsa politica che ha segnato la fine della disastrosa esperienza di governo del primo ministro Brian Cowen. Mentre il voto del 25 febbraio prossimo produrrà un’inevitabile quanto umiliante sconfitta per il suo partito (Fianna Fáil), il nuovo Esecutivo che uscirà dalle urne è destinato a seguire lo stesso percorso fatto di devastanti misure di austerity per ripagare il prestito erogato dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale seguito alla crisi che ha sconvolto l’ormai ex “Tigre Celtica”.

 

Le tensioni sociali che attraversano l’Irlanda da oltre due anni a questa parte si sono amplificate nel corso delle ultime settimane, fino a produrre un totale sconvolgimento del panorama politico. Al centro delle trame dei vari partiti – alternativamente preoccupati per la loro sopravvivenza politica o decisi a sfruttare l’occasione per conquistare il potere – ci sono le sorti del Taoiseach (primo ministro) Cowen. A preannunciare il destino di quest’ultimo era stato peraltro uno scoop giornalistico, che aveva rivelato la sua complicità con il mondo della finanza responsabile del tracollo dell’economia irlandese.

In un recente libro, infatti, è stata descritta una telefonata e un amichevole incontro di golf tra lo stesso Cowen e Sean Fitzpatrick, già presidente di Anglo-Irish Bank. Il finanziere irlandese, nel 2008, si sarebbe sentito con l’allora ministro delle Finanze per concordare il salvataggio della propria banca sull’orlo del collasso. Poco più tardi, il governo di Dublino avrebbe incluso la Anglo-Irish Bank nel provvedimento di emergenza adottato per garantire tutti i depositi degli istituti bancari del paese, una decisione che avrebbe trasferito i circa trenta miliardi di debito della banca guidata da Fitzpatrick ai bilanci pubblici.

Con la prospettiva di un rovescio memorabile nelle prossime elezioni, a fare il passo decisivo verso la crisi di governo sono stati i Verdi, principale partner del partito di maggioranza. Allarmati per la loro stessa sopravvivenza politica, un paio di settimane fa i Verdi hanno così ritirato il proprio sostegno al gabinetto Cowen, passando all’opposizione. Nel frattempo, per il primo ministro la situazione ha cominciato a farsi critica anche sul fronte interno al proprio partito. I vertici del Fianna Fáil hanno cercato di dargli la spallata per presentarsi al voto anticipato con un leader meno impopolare. Brian Cowen, sostituito dal suo ex ministro degli Esteri, Michael Martin, è stato dunque costretto a farsi da parte, diventando il primo Taoiseach nella storia irlandese a non ricoprire contemporaneamente la carica di segretario del partito di maggioranza relativa.

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Coca Cola made in China

16 02 2010

L’arte della guerra è un libro scritto dal Maestro Sun Tzu (un Generale cinese vissuto tra il VI e il V secolo a.c.). Uno dei suoi capisaldi consiste, per venire a capo di una durissima disputa, nell’abbracciare insistentemente il proprio nemico in modo che lo stesso non abbia mai a capire le nostre cattive intenzioni e si scopra. Rendendo più facile ed efficace il nostro attacco finale e i nostri propositi egemoni. Ci è tornato in mente questo trattato di arte militare letto moltissimi anni fa (molto in voga anche nel pensiero manageriale contemporaneo) leggendo un report su un giornale finanziario riguardante la penetrazione dell’economia americana da parte della Repubblica Popolare Cinese. Dalla esplosione della crisi mondiale del 2009, la Cina ha investito negli Usa circa 15 miliardi di dollari sottoforma di partecipazioni azionarie attive che hanno riflessi anche nella governance di importantissime aziende (Morgan Stanley, Bank of America, Motorola, Coca Cola, Johnson & Johnson, Visa). Inoltre, il più grande produttore di alluminio del colosso asiatico (Aluminium Corporation Of China) ha accettato di investire 19,5 miliardi di dollari in una delle più importanti società minerarie del mondo, l’australiana Rio Tinto, aumentando, tra l’altro, la sua quota nel
capitale della società sino al 18% del totale e di fatto assumendone il controllo. Operazioni analoghe
sono state compiute dalla CIC (China Investement Corporation, Fondo sovrano cinese che ha guidato queste operazioni) in Canada dove circa 5 miliardi di dollari sono stati investiti nella Teck Resources (colosso del settore minerario).
Fino al 2006 gli Stati Uniti avevano respinto i tentativi di penetrazione della loro economia da parte dei cinesi, innalzando in modo netto le proprie barriere doganali e i dazi. Causa la crisi economica e finanziaria che ha sconvolto ogni cosa nel 2009, oggi l’Amministrazione Usa è stata costretta ad
aprire agli investimenti cinesi, grazie ai quali alcune di queste aziende sono state letteralmente salvate da un disastro altrimenti inevitabile. Penetrazione commerciale della Cina a parte, il risultato (banalizzato) è che uno beve una lattina di Coca Cola, pensando che sia il prodotto più “made in Usa” al mondo, invece si accorge che quella lattina (almeno al giorno d’oggi) è molto meno americana ed espressione del capitalismo imperiale di quanto ci si possa aspettare

Estratto da La lattina di Coca su Indiscreto





Se non avete capito niente di quello che succede a Dubai

18 12 2009

Leggetevi questo articolo pubblicato su NfA

I Guai di Dubai

Spiega tutto molto bene





L’urbanizzazione di Dubai negli ultimi 9 anni e l’inevitabile crisi

16 07 2009

E’ visibile a questo indirizzo ed e’ piuttosto uno shock

Nel frattempo il Burj Dubai e’ praticamente finito, mancano solo pochi metri (degli 818 previsti) da ricoprire

Foto del 26/06/2009

Nel frattempo e’ interessante leggere questo articolo apparso sull’Independent:

Il lato oscuro di Dubai
DI JOHANN HARI per The Independent

La grande faccia sorridente dello sceicco Mohammed, il padrone incontrastato di Dubai, splende sulla sua creazione. La sua immagine è in bella mostra sulla facciata di un edificio su due, alternata a quelle più familiari di Ronald Mac Donald e del Colonnello Sanders (di Kentucky Fried Chicken,ndt).

Quest’uomo ha venduto Dubai al mondo come la città dalle mille e una luce, una Shangri-la del medio oriente, isolata dalle tempeste di sabbia che imperversano sulla regione. Egli domina dall’alto la skyline in stile Manhattan, spuntando da file su file di piramidi di vetro e hotel che ricordano torri fatte con monete d’oro. Lo ritroviamo lì, sull’edificio più alto del mondo, uno spunzone lanciato verso il cielo più di ogni altra costruzione dell’uomo nella storia.
Ma il sorriso dello sceicco Mohammed ha perso un po’ di smalto ultimamente. Le onnipresenti gru si sono prese una pausa nel panorama, come ferme nel tempo. Ci sono innumerevoli edifici fermi a metà, all’apparenza abbandonati.

Nelle costruzioni più scintillanti, come l’enorme hotel Atlantis, un gigantesco castello rosa, edificato in 1000 giorni ad un costo di più di un miliardo di euro su un isola artificiale costruita ad hoc, l’acqua piovana filtra dal soffitto e le tegole si staccano dal tetto.
Questa terra da favola e’ stata costruita su un sogno e adesso cominciano a vedersi le crepe.
Improvvisamente sembra assomigliare un po’ meno ad una Manhattan al sole e un po’ più ad una Islanda nel deserto. Ora che la folle esplosione dei cantieri si è fermata ed il vento sta girando, i segreti di Dubai stanno lentamente emergendo. Questa è una città costruita da zero nell’arco di pochi decenni selvaggi di macro-credito e di uccisione dell’ecosistema, di soprusi e di schiavitù. Dubai è una metafora vivente di vetro e metallo del neo-liberismo globalizzato che può finire la sua folle corsa schiantandosi contro la storia.
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LONDRA AL TEMPO DELLA CRISI SEMBRA UNA CITTÀ FANTASMA

16 05 2009

John Carlin, “El Paìs”, Spagna (da “Internazionale”)
Molte giovani promesse della gastronomia internazionale si sono ispirate alla cucina di El Bulli e del suo chef Ferran Adrià, il più celebre cuoco del mondo. Ma quello che ha imparato meglio la lezione del maestro è l’inglese Heston Blumenthal. Molte guide gastronomiche sostengono che il suo ristorante, The fat duck, è secondo solo al locale catalano di Adrià.

The fat duck è diventato uno dei simboli della ricchezza di Londra, capitale finanziaria e culturale del mondo negli ultimi dieci anni, protagonista di un boom planetario apparentemente destinato a durare in eterno. Miliardari vecchi e nuovi venivano a vivere nella capitale britannica da tutto il pianeta. E una volta saziato il loro appetito di Ferrari, Bentley e case di lusso, spendevano una fortuna in champagne, potage di lumache con prosciutto spagnolo e gelati al bacon nel ristorante più famoso della breve ma intensa storia dell’alta cucina britannica.

Emblema di quel periodo di crescita che Alan Greenspan ha definito “esuberanza irrazionale”, Londra è oggi una città in difficoltà: secondo il Fondo monetario internazionale la Gran Bretagna è il paese sviluppato con le prospettive economiche peggiori. E uno dei simboli di questa crisi è proprio il locale di Blumenthal. Dopo una megaintossicazione che tra gennaio e febbraio ha colpito centinaia di clienti, The fat duck è stato costretto a chiudere i battenti per qualche settimana. Esattamente la stessa cosa che sta succedendo ad altri negozi, ristoranti e aziende della capitale britannica, dove anche l’entusiasmo sembra in via di estinzione.

A Londra tutti sono preoccupati, ma il settore coni problemi più gravi è quello finanziario. È stato la prima fonte di ricchezza della città, il motore che ha creato un’infinità di posti di lavoro per avvocati, consulenti, pubblicitari, agenti immobiliari e cuochi, e che ha fatto guadagnare enormi quantità di denaro, spesso in modo poco trasparente e irresponsabile.

Ragazzi di venticinque anni appena assunti in qualche banca d’affari riuscivano a comprarsi un’Aston Martin o una casa da milioni di sterline grazie ai bonus annuali, mentre manager di medio livello di 35 o 40 anni, con stipendi da 200 milioni di sterline all’anno, ricevevano spesso premi da diversi milioni. Quanto più denaro (altrui) rischiavano, tanto più ne guadagnavano. E i soldi circolavano per tutta la città. Il clima di fiducia era tal-mente diffuso che i mutui venivano distribuiti come pinte di birra in un pub. Tutti hanno creduto di essere ricchi e hanno speso più di quanto potevano.

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Non siamo tutti americani

23 04 2009

Vittorio Zucconi per “la Repubblica”

Deve finire il regno dell´oro di plastica, del tesserino di 8 cm. per 5 che, dalla prima “carta” emessa dal Diners Club nel 1949 per cenare a credito, era divenuta l´arma di distruzione di massa dell´economia domestica e poi nazionale. I consumatori devono disintossicarsi e riscoprire le virtù delle nonne italiane: mai fare il passo più lungo della gamba.

Basta con l´orgia delle cartine, ha ordinato la Casa Bianca e ha spiegato Larry Summers, il cardinale della finanza più ascoltato da Obama. Basta con gli acquisti al grido di “charge it!”, me lo carichi sulla carta, che hanno sostenuto la falsa prosperità e divorato il risparmio, ridotto a zero dal luglio del 2004. Sono state “the fool´s gold”, la ricchezza dei folli e quella follia sta costando troppo cara.

Ma staccare i 250 milioni di americani che portano in tasca e in borsetta un miliardo e mezzo di carte di credito – almeno cinque a testa in media – sarà come svezzare un neonato dal biberon. Da quasi sessant´anni, appunto dalla prima carta della Diners, due generazioni sono cresciute aggrappate a quel rettangolino plastificato, sprofondando nell´illusione di essere più ricchi di quel che in realtà erano. Vittime della praticità, e della tentazione, fino all´apoteosi del 2002 quando i pagamenti con l´oro di plastica scavalcarono ogni altra forma di pagamento.

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C’e crisi dappertutto (cit.) #2

6 03 2009
Se nannamo a Sciarm ??

Se n'annamo a Sciarm ??

La recessione non sembra fermare la voglia di vacanza. La conferma arriva dalla mole di preventivi (+30% rispetto allo stesso periodo del 2008) che le agenzie di viaggio stanno cercando di smaltire in vista delle prossime vacanze pasquali.

«Nonostante la cattiva congiuntura economica – conferma Loredana Rinaldi dell’agenzia affiliata a Giramondo Nessie Viaggi – è tornato il desiderio di vacanza, di evasione dalle problematiche quotidiane e, soprattutto, di caldo. Mar Rosso e Oceano indiano sono infatti le mete più gettonate».

Destinazioni scelte, nel caso del più vicino Egitto, in particolare dalle famiglie, allettate da sconti fino al 25% in caso di prenotazioni anticipate e da pacchetti all inclusive costruiti attorno alle esigenze dei più piccoli: «Aprile, tradizionalmente, è sempre stato un buon mese per località costiere come Sharm el Sheik, Hurgada e Marsa Alam, tuttavia quest’anno molto richieste sono anche le crociere sul Nilo e le visite a Luxor, alle oasi e alla capitale Il Cairo, il che ci fa tirare un sospiro di sollievo, considerato il disastro di dicembre, gennaio e febbraio», racconta Livia De Fabianis di Kemet Viaggi.

Ieri pomeriggio, nell’agenzia Turisanda di piazza Risorgimento a Milano c’era la coda: «Prenotare una tripla o una quadrupla famigliare per tempo – spiegava Elisa Anelli è molto conveniente, considerato che, oltre agli sconti, generalmente i minori di dodici anni non pagano. L’impressione è che il volume dei preventivi sia in linea con quello dello scorso anno, forse qualche punto in più. L’Egitto rappresenta una conferma mentre, sorprendentemente, raccolgono più favore del previsto le Isole Mauritius (Mauritius e’ una sola, non e’ un arcipelago ndC), le Maldive e il Madagascar».

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Dubai, scoppia la bolla immobiliare

4 03 2009

E’ scoppiata la bolla immobiliare di Dubai: il valore delle case crolla, molti cantieri sono stati chiusi a lavori incompiuti per l’insolvenza dei costruttori, e il sistema creditizio locale mostra segni di gravi difficoltà. Nei sette Stati che fanno parte degli Emirati arabi uniti sono stati cancellati 250 miliardi di dollari di progetti edilizi, la maggior parte dei quali erano concentrati a Dubai. Dalla crisi non sono immuni neppure i gruppi edilizi di proprietà statale, come Nakheel e Emaar. E’ di fatto congelato anche il completamento del Dubai World Trade Center. Di fronte a queste notizie lascia perplessi l’annuncio – fatto ieri dal governo indonesiano al vertice internazionale della finanza islamica – secondo cui le banche islamiche sarebbero meno vulnerabili in questa crisi. Il governo giapponese ha deciso di attingere alle riserve ufficiali della sua banca centrale (circa 1.000 miliardi di dollari, la seconda riserva più ricca del mondo dopo la Cina) per fornire prestiti a tassi agevolati alle aziende nipponiche che operano sui mercati internazionali. L’inusuale ricorso alle riserve della banca centrale è motivato dall’estrema difficoltà in cui si trovano gli esportatori giapponesi. 500 miliardi di yen saranno messi subito a disposizione delle imprese esportatrici perché possano fare fronte al finanziamento della propria attività quotidiana sui mercati esteri. Intanto la Toyota ha rivelato per la prima volta che chiederà ufficialmente di poter ricevere aiuti governativi da Washington, per la filiale finanziaria (credito all’acquisto rateale) che opera per i suoi stabilimenti situati negli Stati Uniti. Il renminbi (o yuan) cinese ha subìto per il sesto giorno consecutivo un declino nella parità con il dollaro. Oggi ha toccato i 6,8392 renminbi per un dollaro Usa. La valuta della Repubblica Popolare fluttua entro una banda di oscillazione dello 0,5% quotidiano. Dal 2005 ha smesso di essere agganciata al dollaro, e fino a questa recente scivolata si era lentamente rivalutata, del 20% in tre anni rispetto al dollaro. La parità con l’euro oggi è a quota 8,5962. La moneta cinese non sfugge alla generale debolezza delle valute asiatiche che favorisce il dollaro. (3 marzo 2009)





La caduta dell’Impero Britannico

4 02 2009

Leonardo Maisano per “Il Sole 24 Ore”

Regina ElisabettaChe cosa esporta l’Inghilterra? Bisogna fermarsi a ragionare prima di riuscire a ricordare tre prodotti inglesi che oggi abbiano successo nel mondo. L’associazione mentale fra l’Inghilterra e la City, ovvero la sovrapposizione fra uno Stato e la sua economia di punta (i servizi finanziari), annichilisce la memoria e confonde la storia. Divora il mito.

La Mini? È tedesca. La Jaguar? È indiana. Le scarpe Church’s? Italiane. Le porcellane Wedgwood? Prossimamente americane. Simboli del made in Britain si sono stemperati in un ventennio di trasformazioni al ritmo di un solo mantra: seppellire la società industriale sotto l’opulenza garantita da quella dei servizi in un mondo globale.

Londra si lecca le ferite aperte da una crisi senza uguali e pensa ai danni prossimi venturi, scandagliando i guasti di un sistema squilibrato. Ora che i servizi, almeno quelli finanziari, boccheggiano, torna alla memoria il destino della gloriosa industria nazionale manifatturiera.

Ha ragione, forse, l’Economist quando sostiene che la distinzione fra settori «è ormai solo un retaggio degli uffici di statistica. L’unica differenza che conta è fra lavori ad alto contenuto specialistico e non». Può anche darsi. Eppure, si esemplifica, a queste latitudini circolano troppi master in economia e molto pochi in ingegneria.

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