Marco Alfieri per “La Stampa”
prezzi cinesi
Qualche mese fa il colosso dei giocattoli Wham-O, che produce frisbee e Hula Hoop per i ragazzini di mezzo mondo, ha riportato metà delle sue fabbriche dalla Cina in California e Michigan. Caterpillar, racconta il Sole 24Ore , per produrre la sua nuova escavatrice non ha scelto i costi bassi dell’Asia ma una cittadina della Carolina del Nord, che ha messo sul tavolo un pacchetto di incentivi da 14 milioni di dollari. La stessa Flextronics, che fornisce Cisco e Hewlett-Packard, sta pensando di ridurre la base cinese per puntare su un paese come il Messico. Poi c’è Ikea, che presidia coi megastore il mercato asiatico ma ha ormai ridotto sotto il 20% del totale acquisti le sue forniture cinesi.
CINA
Da qualche tempo la Cina sembra un po’ meno la fabbrica del mondo conosciuta e temuta negli ultimi 15 anni. Chi dava per morta la produzione nel vecchio Occidente affossato dalla crisi del debito, almeno su questo potrebbe ricredersi. E’ una specie di delocalizzazione di ritorno. «In Cina sta aumentando tutto», spiega Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia. L’inflazione è schizzata al 6,5%. I prezzi alla produzione sono cresciuti del 7% in pochi mesi, gli alimentari del 15, la terra del 20. Anche lo yuan è apprezzatissimo tanto che il vice di Obama, Joe Biden, in visita in Cina, ha chiesto alle autorità di Pechino di rivalutarlo.
Ma è soprattutto l’habitat produttivo a rincarare. «I 34 governi provinciali, indebitati fino al collo dopo il grande ciclo delle opere pubbliche, devono fronteggiare la stretta bancaria e immobiliare», dunque raschiano soldi dove possono torchiando le imprese: «sicurezza sul lavoro, norme antincendio, ambientali, tutte cose su cui prima sorvolavano», prosegue Forchielli. Nel frattempo «il costo del lavoro lievita del 20% l’anno, ben oltre una produttività frenata dai pochi investimenti in tecnologia e formazione. Ogni giorno ci sono operai e fornitori che chiedono l’aumento», raccontano i manager del fondo Mandarin.
Caterpillar
Secondo le stime di Boston Consulting Group, un salario medio cinese nel delta dello Yangtze fermo a 0,72 dollari l’ora nel 2000, salirà a 8,16 nel 2015. Vuol dire che il risparmio sui costi occidentali ormai non vale più del 15 per cento. Così sempre più aziende europee o americane si fanno un giro ma decidono di non aprire. E’ successo ad una grossa azienda chimica tedesca che ha appena disdetto un pre-contratto per andarsi a basare in Arkansas. Chi concepisce la Cina come pura base di esportazione, ormai ci pensa bene prima di venire.
Naturalmente Pechino resta la locomotiva del mondo. La produzione industriale tiene (+17% sul 2010), i consumi girano (+16%) e il Pil crescerà anche quest’anno all’8%, nonostante i tentativi di raffreddarlo per evitare di importare inflazione dagli Usa. Ma la transizione verso un modello meno centrato sul tridente «investimenti-produzione-export» e più attento alla domanda interna e ai servizi, sarà lungo e doloroso anche per gli scaltri timonieri del partito comunista.
A Dongguan, metropoli da 10 milioni di abitanti incastrata tra Shenzhen e Guangzhou, in pratica la principale base export del tessile e dei giocattoli made in China, se ne vedono i segni. Molte imprese stanno chiudendo per il calo della domanda estera e i costi fuori mercato: nel primo semestre dell’anno se ne contano già 265. Compresi due colossi da migliaia di posti di lavoro come il South Korean Suyi Toy Factory e la Chinese Dingjia Textile Factory.
ikea
La catena è infernale e apre veri e propri crateri sociali: i clienti europei e americani riducono gli ordinativi, le scorte si fermano in magazzino, il costo del lavoro e delle materie prime schizza e le banche non concedono i mutui necessari a pagare i fornitori. Tanto più su produzioni dove i margini non vanno oltre il 5% sempre più appannaggio di paesi low cost come Vietnam, Cambogia e Indonesia, scelte dalle grandi catene occidentali attentissime a limare i costi davanti a scenari di consumi deboli.
Paradossale, no? I paesi cintura stanno facendo quel che i cinesi fecero ai nostri distretti a metà anni 90: la concorrenza sul prezzo! Nel settore del pellame, ci sono aziende di Pechino che per difendersi stanno a loro volta delocalizzando in Africa…
Su prodotti più alti pesa invece la maturazione del consumatore occidentale. «La Cina può soddisfare alcune esigenze di base, ma ha sempre più difficoltà con i prodotti top», raccontano dalla Confindustria europea a Bruxelles. «Molti grandi buyer americani o tedeschi lamentano la scarsa fattura delle partite cinesi, e questo ci rimette in pista», rilancia un imprenditore tessile comasco. «Alcuni colleghi francesi che avevano venduto stanno riattando vecchie tessiture per tornare a produrre in casa».
Buon segno. «I cinesi non sono in grado di consegnare 30mila mq di piastrelle di buona qualità in due settimane dall’altra parte del globo, noi sì», s’inorgogliscono da Sassuolo. Il resto lo fanno i costi logistici e la scarsa tutela dei contratti. E’ la globalizzazione che si rimette in moto. Un’altra volta.
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